Zero Netflix - Credits: Netflix

Avrete ormai sentito e letto ovunque che Zero è una serie rivoluzionaria. E per quanto possa sembrare un’espressione inflazionata e usata spesso a sproposito, questa volta è davvero così. Basta premere play su Netflix per capirlo. È rivoluzionaria nella sua stessa dichiarazione di intenti: l’autoaffermazione e la necessità di essere riconosciuti e non sentirsi più invisibili. Da questo bisogno, scaturisce, poi, come conseguenza la sua straordinarietà nel panorama audiovisivo italiano, la sua capacità di cambiare (si spera per sempre) le regole del gioco ossia le politiche e le abitudini della rappresentazione.

Vediamo però nel dettaglio cosa rende speciale questa serie, consigliatissima.

L’ASPETTO CULTURALE E IL RICONOSCIMENTO DEGLI ITALIANI NERI

Il primo, evidente, elemento che caratterizza la serie è il cast composto in prevalenza da italiani neri. Due parole, queste ultime, che ancora non sono entrate come dovrebbero nel vocabolario comune, ma che costituiscono la base di Zero. Lontano dalle immediate aspettative, però, Zero non è una serie che parla di razzismo. Certo, lo sottintende in alcuni dialoghi e in alcuni atteggiamenti sottilmente denunciati. Il fuoco dell’azione, almeno nei primi cinque episodi, ruota tuttavia intorno al senso di appartenenza. E intorno all’essere italiani, nonostante non si abbia una carta d’identità che lo certifichi. All’essere milanesi e conoscere tutte le anime della propria città. All’essere del Barrio (il quartiere della Barona) e a lottare con tutte le proprie forze per salvarlo.

La prima foto del cast rilasciata a inizio riprese: (S/D): Madior Fall, Richard Dylan Magon, Virginia Diop, Daniela Scattolin, Giuseppe Dave Seke, Beatrice Grannò, Haroun Fall - Credits: Netflix
La prima foto del cast rilasciata a inizio riprese: (S/D): Madior Fall, Richard Dylan Magon, Virginia Diop, Daniela Scattolin, Giuseppe Dave Seke, Beatrice Grannò, Haroun Fall – Credits: Netflix

Zero, Sharif, Sara, Momo e Inno rifuggono la costruzione stereotipata che ormai non rappresenta più la realtà multiculturale italiana. Sono personaggi volutamente distanti da alcune banali semplificazioni e aspettative del pubblico. La sceneggiatura, per esempio, insiste molto sulla passione di Zero per i manga giapponesi e per il fumetto: un’associazione che sembra ossimorica solo perché a nessuno era venuta in mente prima, al posto di una palla da basket o di uno spinello. E basta così “poco” per fare la differenza che quasi fa rabbia pensare che ci sia voluto così tanto tempo per andare oltre lo stereotipo.

A ben vedere, però, è un passo che si può compiere solo se nella writers’ room, cioè nella squadra di scrittura, c’è almeno una voce in grado di raccontare dall’interno. Come è stato con Antonio Dikele Distefano, autore sia del soggetto della serie sia del romanzo da cui è liberamente tratto.

E a rigor del vero, un paio di scivoloni sugli stereotipi ci sono stati, solo che su un altro fronte, a partire dai poliziotti arroganti e rigorosamente meridionali. Si potevano evitare, ma forse andrà meglio la prossima volta. Sì, perché in realtà gli ultimi tre episodi degli otto totali, e soprattutto il gran finale, aprono senza dubbio la via a un’eventuale seconda stagione.

L’ORIGINALITÀ E LA DISTANZA DAL ROMANZO

Il cliffhanger, ossia il finale sospeso, porta a un’immediata considerazione: il cambio di rotta rispetto al romanzo Non ho mai avuto la mia età (Antonio Dikele Distefano, Mondadori). La storia del libro è drammaticamente autoconclusiva, non ammette alcuna continuazione, anche perché il suo messaggio si concretizza proprio nel brusco e inaspettato finale. La serie TV è senza dubbio un prodotto diverso, con diverse intenzioni, e infatti sceglie solo di ispirarsi liberamente alla storia iniziale. Cambiano dunque alcuni protagonisti, i rapporti fra loro e le loro motivazioni, oltre che molti temi.

Innanzitutto vi è l’introduzione di un inaspettato superpotere, già scelta inusuale in un contesto italiano: l’invisibilità di Zero. Metaforicamente è una scelta sottile e altamente rappresentativa della condizione di abbandono, di invisibilità sociale e mancato riconoscimento di tanti italiani e italiane di seconda generazione. Diventa inoltre, in maniera estremamente intelligente, lo strumento che per contrasto permette a Zero di salvarsi e salvare le persone e i luoghi che ama.

Antonio Dikele Distefano (autore) e Giuseppe Dave Seke (Zero)

Originale, ossia non tratto dal romanzo, è anche l’insistito discorso sulla gentrificazione, se così possiamo chiamarla anche in Italia. Una strategia di mercato “da palazzinari” che costringe gli abitanti del Barrio a una deportazione violenta, come viene letteralmente descritta nella serie. E questo è effettivamente il cardine degli otto episodi, un macro-tema che alla fine ingloba tutte le sottotrame presenti, in un meticoloso esercizio di scrittura. Quest’ultima considerazione, inoltre, ci porta alla terza ragione per cui Zero è una serie imperdibile.

L’ELEVATA QUALITÀ TECNICA DELLA SERIE

A conti fatti, Zero è l’unica serie originale di Netflix Italia realmente convincente. A volte non riesce a liberarsi dal peso di dialoghi un po’ forzati, difetto che accomuna quasi la totalità delle serie nostrane. Tuttavia la scrittura complessiva (al netto di alcuni passaggi troppo frettolosi nei singoli episodi), l’aspetto tecnico e la regia sono di alto livello.

Solo per fare un esempio, è perfettamente coerente con il personaggio, oltre che un’idea brillante, la resa della visione di Zero da invisibile. Dall’interno di questo suo straordinario schermo visivo, il mondo appare infatti disegnato come un albo a fumetti e tutto è in bianco e nero, tranne Zero stesso, il supereroe, che noi vediamo a colori.

Colpisce poi la cura dei luoghi, elemento imprescindibile del senso e del messaggio della serie. Di conseguenza, il nostro sguardo è attratto, quasi inconsapevolmente, dalle scenografie di Carlo Aloisio, che raccontano due facce di Milano molto diverse tra loro.

Ampio merito della riuscita di questo progetto, poi, va sicuramente al buon lavoro della regia nella direzione degli attori. Guardando gli otto episodi, nonostante siano diretti da quattro sguardi diversi, si comprende molto bene la chiarezza con cui la regia ha guidato il cast nella costruzione dei personaggi, facendo rimanere generalmente tutti “in parte”. E non è affatto scontato, considerando che molti interpreti erano alla prima esperienza su un set. Ricordiamo allora i nomi dei quattro registi: Paola Randi (ep. 1 e 3), Mohamed Hossameldin (ep. 2), Margherita Ferri (ep. 4 e 5) e Ivan Silvestrini (ep. 6, 7, 8). E soprattutto del cast di cui, si spera, sentiremo sempre più parlare: Giuseppe Dave Seke (Omar/Zero), Haroun Fall (Sharif), Daniela Scattolin (Sara), Richard Dylan Magon (Momo), Madior Fall (Inno), Virginia Diop (Awa) e Beatrice Grannò (Anna).

LA MUSICA E LA GENERAZIONE Z

Il quarto e ultimo motivo per cui non dovreste perdere questa serie in realtà chiude il cerchio e ci riporta all’inizio. Zero infatti crea innanzitutto la possibilità di una diversa rappresentazione e in secondo luogo sa già a quale pubblico potersi rivolgere. Da un lato ci sono naturalmente tanti italiani e italiane che prima d’ora, prima di Zero, non si sono mai realmente riconosciuti in alcun modello televisivo o cinematografico. Dall’altro ci sono anche tutti i giovanissimi che vivono quotidianamente, a partire dalla scuola, la multiculturalità italiana.

Al di là dei superpoteri, quindi, Zero si àncora fortemente alla realtà e parla soprattutto alla generazione Z (e in parte anche ai millennials). Si adatta quindi a un preciso linguaggio e un preciso codice, espresso spesso attraverso la musica. La colonna sonora conta due inediti, realizzati appositamente per la serie: 64 barre di paura di Marracash, nel primo episodio, e Zero di Mahmood, nei titoli di coda dell’ultimo episodio. Ogni sequenza, tuttavia, ha un brano di riferimento, specialmente rap e trap ma non solo. È così che sentiamo anche: Tha Supreme, Madame, Mara Sattei & Coez, Lous and The Yakuza, Lil Wayne e tanti altri.

Tutto, ancora una volta, in modo perfettamente coerente con il fine ultimo di questa serie, che non è l’inclusione ma l’inclusività. Non un atto passivo ma una progressiva riappropriazione dei volti, delle storie e delle identità che racconta, usando finalmente la propria voce.

Che dite, vi abbiamo convinti a guardarla?