L’ultimo film del regista peruviano Óscar Catacora, deceduto il 26 novembre 2021 a 34 anni, è Yana-Wara, un’opera espressionista in bianco e nero, presentata per la prima volta in Italia all’interno della diciassettesima edizione de La Nueva Ola, il Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano.
Tortuoso e crudo, violento, claustrofobico e minimale, il film è un cortocircuito sociale che si origina da un omicidio e che deve essere sbrogliato.
Così vivono gli aymara
Sulle vette andine del Perù vive una comunità aymara isolata e retrograda. Qui abitano anche Don Evaristo (Cecilio Quispe) e sua nipote Yana-Wara (Luz Diana Mamani), su cui pesa un passato maledetto: i suoi genitori sono morti mentre lei era ancora molto giovane, per questo viene ritenuta marchiata da un cattivo destino. Un giorno i capi della comunità arrestano Evaristo per l’omicidio della ragazza, chiedendo, prima di emettere il giudizio, la sua versione dei fatti.
Dalle parole di Evaristo si articola una storia di abuso, vendetta e maledizioni, che sprofonda in un oscuro realismo magico fatto di piccole liti tra uomini, divinità andine e demoni. Yana-Wara, muta a causa dei suoi traumi, diventa il corpo sacrificale su cui si iscrivono, uno dopo l’altro, i difetti delle tradizioni della comunità, del maschilismo violento e bestiale, e del dolore senza speranza degli sconfitti in un mondo feroce e ipocrita.
La comunità considera in modo brutale o indifferente Yana-Wara fintantoché è viva, ma sembra valere più da morta in quanto fonte di un mistero che i capi non riescono a svelare con il solo ausilio delle loro usanze.
Per poco meno di due ore sediamo accanto a lei nel corso della sua tragedia: il film ha effettivamente una struttura drammaturgica, rinchiusa da una cornice narrante e concludente, e un tema potentemente tragico articolato con vera grazia registica.
La prigione delle rocce
Poche volte nel film vediamo il cielo, o gli astri del giorno e delle notte. La luce è gelida, pesante, e batte con spietata naturalezza le rocce che affastellano i paesaggi.
Tutti gli sfondi chiudono i personaggi della storia in una dimensione claustrofobica, dipingendo però degli scenari che la fotografia di Julio Gonzáles F., Óscar e Tito Catacora (che ha finito il film dopo la morte del fratello) rende magniloquenti. Il bianco e nero crepa le rocce, il terreno e la vegetazione brulla, filtrando dentro la storia e i personaggi stessi, rendendo ogni cosa torbida, appesantendo l’atmosfera e ogni inquadratura, creando così un quadro di una decadenza vulcanica che si vota di scena in scena all’esplosione/risoluzione finale.
La natura crepita sotto il vento, il sole e la luna, arsa e arida, e su di essa gli aymara si muovono con una dignità evangelica, pur nella meschinità arcaica e nell’ipocrisia irrigidita dalle tradizioni. L’epica primitiva trova in questi paesaggi e personaggi un luogo dove erompere con una grazia virtuosa, che regala una storia di una cupezza vertiginosa e di una grande bellezza formale.
Degno di nota il turning point morale ed etico nel finale, che non ho qui intenzione di divulgare; un vero fulmine a ciel sereno che squarcia il cielo e dirada le nubi della tradizione sulla comunità.
In breve
Votato ad un’atroce svolgimento ed una risoluzione inaspettata, ma non meno cruda, il film vive di queste due anime: contenuto e forma, entrambi maneggiati con estrema maestria dai fratelli Catacora.
Il film è disponibile in streaming su MyMovies.it nella sezione La Nueva Ola.
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