Ricostruendo la storia della maga delle televendite più famosa d’Italia, Wanna si pone nel panorama Netflix come un ennesimo true crime che, però, questa volta parla anche di noi
Le umili origini, le prime televendite, gli amori, i fallimenti, i nemici, infine il processo e ora l’atteso ritorno: questa è la storia di “Wanna” docu-serie di 4 puntate realizzata da Alessandro Garramone e con protagonista Wanna Marchi.
Tra ricostruzioni, filmati, interviste veniamo riportati indietro nel tempo, in un giallo fatto di raggiri dai molteplici aspetti, fagocitati dalla figura poderosa e dissacrante di Marchi, che volente o nolente, finisce per essere uno specchio degli ultimi decenni del secolo scorso.
La tv di Wanna
Dalle alghe “scioglipancia” fino ai numeri fortunati di Do Nascimiento, si racconta una storia che ben si incastra in un momento storico italiano che ancora stentiamo a riconoscere e assimilare: gli anni che segnano la fine del comunismo in Italia e il trionfo del sogno yuppie, in cui il capitalismo regna sovrano e ognuno può diventare imprenditore di se stesso.
L’epoca delle ristrettezze e della ripresa dalla guerra è ormai lontano, le speculazioni in ogni ambito economico sembrano la nuova moneta corrente e così anche le televisioni (che, non a caso, in quegli anni si moltiplicano in decine di tv private) decidono di far soldi con vendite di ogni tipo. Dai divani alle pentole, passando per miracolosi trattamenti di bellezza, pillole per dormire, diamanti e, infine, persino fortuna.
Qui si trova a spiccare su tutti Wanna Marchi, accompagnata dall’irriducibile alleata di una vita, sua figlia Stefania Nobile. La più brava, la più aggressiva, la più spaventosa e, soprattutto, quella che combinava tutte queste cose riuscendo a fare più soldi di qualsiasi altro competitor, diremmo adesso. Bistrattando il pubblico, umiliandolo e quasi minacciandolo, Wanna riesce ad essere il villain perfetto, un’Ursula della Sirenetta in carne ed ossa a cui è difficile dire di no e che, anche adesso, nel lavoro targato Netflix fa di tutto per mantenere una stretta decisa sul pubblico.
Nonostante il racconto di Garramone, arricchito da filmati d’epoca e interviste esclusive, si ponga come un documentario investigativo dal piglio chiaro e professionale, non riesce a prevalere su Wanna, la lascia protagonista assoluta, peccando nel riuscire a trasmettere l’immagine di una truffatrice fraudolenta che ha lucrato sulle altrui debolezze e soccombendo all’immagine della donna auto-realizzata, dell’imprenditrice. Una cattiva a cui ammiccare e quasi ammirare, come nei migliori gangster movie e che esce da questa vicenda senza una sufficiente imparzialità, ma preferendo far vincere la grandezza del personaggio alla storia.
Tra televendite e sponsorizzate
Ne esce comunque un racconto quasi profetico, in cui si parla di noi al passato e al presente: le televendite ora non sono altro che le sponsorizzate, le alghe contro l’adipe non sono altro che bibitoni proteici con cui veniamo bombardati su Instagram e così via in un parallelismo raggelante con la nostra realtà quotidiana. Non ci sono più le Wanna che ci urlano contro e, si spera, non c’è più nessuno che ci minaccia al telefono se non compriamo degli amuleti contro la cattiva sorte, ma siamo ancora qui, fermi a idolatrare immagini sempre più ricche e potenti grazie agli introiti ottenuti dai nostri acquisti fatti per cose che non utilizzeremo e di cui non avevamo bisogno.
In maniera quasi gattopardiana, Wanna rappresenta il processo che ha portato all’ascesa e al declino di un modo di fare imprenditoria (che, non a caso, si sviluppa in parallelo con i processi di Tangentopoli) che anziché morire si è solo mascherato, evoluto, adattato perché nulla realmente cambi.
Ne è espressione la stessa Marchi, che ancora si pone, urla, abita il nostro immaginario attuale come nel passato, facendo da padrona e dando vita al concetto secondo cui tutto ciò che esiste può essere in vendita e venduto.
Dopotutto, la chiave di lettura ci viene offerta sin dall’inizio della serie, in cui si gioca con Wanna a “vendimi questa penna”, chiara strizzata d’occhio a The Wolf of Wall Street, chiara reference al bagaglio di inganni e imbrogli che stanno per essere smascherati ma anche chiaro segnale di come, in fondo, la protagonista del racconto finirà per essere dipinta un po’ carnefice e un po’, consapevolmente, eroina di una storia che non smettiamo mai di rivivere.
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