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VERDENA foto di Paolo De Francesco

Guardandosi indietro

Quando agli inizi del 2000 una generazione di teenager ascoltava Valvonauta, sentiva ancora viva quell’onda grunge che, in realtà, non aveva fatto in tempo a vivere. E non gl’importava se i Verdena assomigliassero nei riff e negli accordi ai Nirvana. D’altronde, lo sapevano anche loro, e lo ammettevano, come hanno fatto col loro terzo album: il titolo, infatti, Il Suicidio del Samurai era la traduzione italiana di uno dei più begli inediti della band di Kurt Cobain, Suicide Samurai.

Il presente dei Verdena

E oggi, invece, una ventina abbondante di anni dopo, quella stessa generazione si trova a riflettere spesso sul successo raggiunto tra le nuove generazioni di band come Greta Van Fleet e Måneskin. Dimenticando troppo facilmente i suoi anni Zero, quando non importava delle assonanze tra Nirvana e Verdena: li ascoltavamo, li cantavamo e basta.

Ma anche loro sono cresciuti. In realtà già da qualche tempo. Forse anche prima della svolta elettronica di Wow, l’album del 2011, il quinto, dopo una serie di dischi sempre bellissimi. Almeno per un orecchio formatosi nel grunge.

Ma crescendo, non hanno mai perso quel qualcosa che, da un lato, è un vanto, dall’altro una pecca: non sono mai entrati nel mainstream. Non come i nostri Måneskin, almeno. Che sia stato per scelta o per contingenze esistenziali dei singoli componenti, ci è dato saperlo solo in parte. Quello di cui siamo certi, è che i Verdena  sono rimasti sempre Roberta, la bassista che incarnava l’erotismo femminile del grunge, Luca, il grande batterista che picchiava con le bacchette al limite del punk, e Alberto, il lunatico, frenetico, eccessivo chitarrista che cantava la confusione (testuale) di una generazione nata troppo tardi per piangere il suo idolo, Kurt Cobain.

Quando nel 2002 realizzarono il secondo album dei Verdena, Solo un Grande Sasso, puntarono su di loro Mauro Pagani e Manuel Agnelli. Quando nel 2015 uscì l’ultimo disco, Endkadenz, lo pubblicarono in due volumi distinti. E nel 2022 crearono la loro prima colonna sonora, quella del film America Latina dei fratelli D’Innocenzo.

Predestinazioni e scelte, tutte anticommerciali, indirizzate sistematicamente contro lo starsystem: i Verdena sembrano continuamente salire sul palcoscenico, ma solo per poi lanciarsi di sotto, tra la folla. Come sembrano fare anche questa volta, con il loro nuovo album, in uscita il 23 Settembre per un’etichetta tutt’altro che indipendente, la Capitol Records Italy/Universal Music.

Eccoli che, ancora una volta, infatti, salgono sul palco. E ci si tufferanno, è quasi una certezza. Forse lo faranno proprio nel tour che avrà inizio il 29 Ottobre prossimo nei principali club italiani (appunto). E molti di noi, siamo altrettanto sicuri, saranno pronti a prenderli, là sotto, senza scansarsi.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.