Venezia 77 o, con un’inevitabile sfumatura apocalittica, Venezia 2020: l’ambiziosa (per i tempi che corrono) edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, (ri)nata dai travagli e dalle incertezze dell’emergenza sanitaria con annesso lockdown, si staglia, dal 2 al 12 settembre, come l’appuntamento simbolico di un sistema cinema che vuole decisamente e ufficialmente ripartire “dal vivo”.
E il programma di titoli selezionati, meno vasto del solito, con alcuni paesi inevitabilmente sottorappresentati (in primis, malgrado le aggiunte dell’ultima e ultimissima ora, gli USA), conferma la volontà di dimostrarsi all’altezza delle (non indifferenti) aspettative, nella varietà e qualità di nomi più o meno noti che è riuscita a radunare.
Perciò, prima di recarci al Lido (o comunque di seguire giorno per giorno le novità veneziane), oltre alla mascherina può essere una buona idea aggiungere al bagaglio alcuni (bei) titoli usciti (e premiati) dalle edizioni (più o meno) recenti del festival: film da (ri)vedere per conoscere meglio (o ripassare) la poetica dei rispettivi registi, in procinto di tornare con nuove opere proprio a quest’annata particolare della Biennale Cinema.
Dom Durakov- La casa dei matti (2002)
Primo film del regista russo (classe 1937) Andrej Končhalovskij ad aggiudicarsi il Leone d’Argento (Gran premio della giuria) a Venezia (nel 2002, per replicare nel 2014 con The Postman’s White Nights e nel 2016 con Paradise), Dom Durakov- La casa dei matti, rivisto oggi dopo quasi vent’anni, è un esempio di “postmoderno d’autore” invecchiato straordinariamente bene.
Conta fino a un certo punto (nel film) che la singolare vicenda dell’ospedale psichiatrico preso nel mezzo della guerra russo-cecena (1996) sia realmente accaduta: Končhalovskij, che prima di questa prova ha attraversato, da cosmopolita eclettico, tanto il cinema d’autore sovietico (a partire da Tarkovskij, per cui ha recitato ne L’infanzia di Ivan) quanto il mainstream americano anni Ottanta (A 30 secondi dalla fine, con Jon Voight), lavora di trasfigurazione e contaminazione allegorica degli immaginari.
Con un occhio al videoclip anni Novanta-primi Duemila, un altro a Lars von Trier, e persino echi dei Freaks di Tod Browning (tra gli interpreti ci sono autentici pazienti psichiatrici), il regista realizza una parabola storico-esistenziale ironica, malinconica e vivacemente, dolorosamente umana come i suoi protagonisti.
A partire da Zhanna (la bravissima Yuliya Vysotskaya), che con la sua fisarmonica e i suoi sogni-allucinazioni d’amore romantico col cantante Bryan Adams (presente in più di un cameo) apre squarci onirici e metafilmici tanto nella grigia routine della reclusione quanto nella tragedia della guerra.
Un capitolo nuovo e ancora fresco della polemica (attualissima) di Končhalovskij contro l’autoritarismo (non solo) del suo paese d’origine, visto ancora una volta (dopo Il proiezionista, sullo stalinismo) da una prospettiva eccentrica e collaterale, dove dramma individuale e collettivo entrano in (proficuo) corto circuito. L’ideale, insomma, per prepararsi al nuovo affresco del regista, quello di Cari compagni! (sugli operai in sciopero nell’URSS di Brežnev), in concorso alla Mostra di quest’anno.
Via Castellana Bandiera (2013)
In concorso a Venezia 77 anche Le sorelle Macaluso, nuova prova dietro la macchina da presa dell’attrice e regista teatrale Emma Dante, che adatta il suo testo omonimo e che, proprio al Lido, nel 2013, aveva già portato il primo lungometraggio, Via Castellana Bandiera (dal suo romanzo omonimo).
Un film da (ri)vedere, perché (anche) il cinema, con tutta evidenza, si addice alla regista. Via Castellana Bandiera è un dramma di (stra)ordinaria follia (o di un’imponderabile logica fatta di terra aspra e aria soffocante) nell’omonima viuzza di Palermo, dove le istituzioni sono talmente assenti che ogni casa si sceglie il suo numero civico (ci sono due 5, uno di fronte all’altro).
E dove due macchine, nella stradina a salire e a scendere possono sbarrarsi il cammino a vicenda. Entrambe hanno ragione ed entrambe torto, ma stabilire quale delle due deve far passare l’altra può diventare questione di vita o di morte. E lo diventa, in uno scontro di volontà tra due personaggi femminili forti e gravati da opposti dolori: Samira (Elena Cotta, Coppa Volpi per la performance) e Rosa (la stessa Emma Dante).
Intorno alle protagoniste, un coro di personaggi prigionieri dell’allucinata situazione, come dei rispettivi vincoli con i propri affetti e (soprattutto) con le durezze di un microcosmo dove la civiltà sembra ancora ridotta al grado zero del territorio da segnare.
Film corale e intimo al contempo, dove i temi della regista (ri)vivono nel mezzo cinematografico, usato (al meglio) per valorizzare la dialettica dei punti di vista, l’espressività dei corpi (e delle cose), il contrasto estenuante tra staticità e movimento (anche del, e nel, tempo) e le risonanze simboliche degli ambienti, case-gabbie esteriori e interiori.
Still Life (2013)
Nella sezione Orizzonti di Venezia 77 torna anche Uberto Pasolini, che nel 2013 aveva vinto il premio per la miglior regia col suo secondo lungometraggio, Still Life. E allora, prima di vedere in anteprima il suo nuovo Nowhere Special (con James Norton), rivediamo (o recuperiamo) la perla di sette anni fa.
Un film dove l’autore mette pienamente a frutto la sua esperienza di produttore indipendente in Gran Bretagna (Full Monty) per narrare con un rigore e una sobrietà che non diventano mai freddo distacco una storia poeticamente alternativa al nostro (mortifero) sistema di vita basato su crescente velocità, falsa efficienza e ipocrita indifferenza.
È l’antitesi di queste caratteristiche il funzionario municipale inglese John May (Eddie Marsan), che da oltre vent’anni si prodiga con dedizione a scoprire, contattare e (ri)connettere gli affetti e ogni altra traccia di vita che i morti (quelli soli, senza parenti e amici nei paraggi a saperne la sorte e a reclamarne gli effetti personali) si lasciano dietro e intorno (chissà dove).
John indaga, telefona, viaggia per ricostruire, rintracciare, notificare: ma il suo non è il puntiglio di un burocrate (malgrado lo sia), bensì il tentativo (estremo) di dare un senso a esistenze interrotte nella solitudine, di non lasciare che il loro ricordo si disperda tra un atto legale e un mucchio di ceneri gettate sulla terra del cimitero.
Il film di Pasolini è come il suo protagonista: scrupolosamente sensibile ai minimi dettagli (che svelano le più profonde verità), parco nelle parole e disteso (ma mai vuoto) nei tempi dell’azione, carico di emozioni dietro la timida e malinconica riservatezza. Se il prossimo lavoro del regista sarà a questi livelli, potrebbe rivelarsi uno dei vertici qualitativi (anche) della nuova edizione.
The Woman Who Left (2016)
Sempre nella ricca selezione di Orizzonti c’è il nuovo film di Lav Diaz, Genus Pan: un’altra parabola di esistenze marginali, e però insolitamente breve per le (fluviali) misure del regista filippino. A ricordarcelo, basterebbe il lungometraggio (di quasi quattro ore) con cui si aggiudicò il Leone d’Oro nel 2016, The Woman Who Left.
Già, ma quanti in Italia, al di fuori dei fortunati presenti a quell’edizione della Biennale, avranno effettivamente avuto modo di vederlo? Non molti, siamo pronti a scommettere. Ed è un peccato, perché si tratta di un grande affresco umano e sociale che immerge senza compromessi nella realtà di una terra, le Filippine, e di un popolo le cui tragedie (in cui, tanto più come “occidentali”, siamo coinvolti) sono colpevolmente relegate (come il loro cinema) ai margini delle narrazioni mainstream.
The Woman Who Left è un film estremo, in tanti sensi: per la storia che racconta, fatta di vite e identità distrutte, di una protagonista (Charo Santos-Concio) che, dopo trent’anni di ingiusta prigionia, vuole ritrovare e rimettere insieme i pezzi, e soprattutto cercare (forse) vendetta contro l’uomo che l’ha rovinata.
Ma siamo agli antipodi di Kill Bill, come di Lady Vendetta, anche perché estrema è pure la scelta di messa in scena: un realismo quasi baziniano fatto di lunghissime inquadrature fisse, giocate sulla profondità di campo, con un bianco e nero (direttore della fotografia lo stesso Diaz) che prima dell’acclamato Roma restituisce meglio di mille (altri) colori le sofferte luci e le profondissime ombre di una società ostile.
Dove (però) i gesti di solidarietà tra diversi solitari, feriti e derelitti della giungla urbana brillano irriducibili seppur disperatamente al di qua di una concreta alternativa. Nessuna prospettiva di riscatto per gli antieroi dell’Inferno quotidiano di Diaz: solo distese parentesi di accoglienza e comprensione, in una via crucis che continua, in una ricerca di resurrezioni mancate che, malgrado tutto, non si ferma.