John Frusciante è rientrato nel gruppo. Di nuovo. E di nuovo ci rientra anche un altro elemento fondamentale, uno che magari non comparirà nella line-up della band, ma che per la costruzione del suo sound non ha eguali: Rick Rubin, il produttore che lavora nell’ombra per far splendere capolavori ancora parzialmente grezzi.
Tornano per realizzare Unlimited Love, il nuovo disco dei Red Hot Chili Peppers. Sono passati già sei anni dal precedente, quel The Gateway nel quale avevano tentato di esplorare nuovi spazi sonori: il tentativo (forse) di un’ennesima rivoluzione. Un tentativo timido in cui gli stessi Red Hot non trasmettevano la convinzione sufficiente per portare a termine una rivoluzione. E nessuno lo sa meglio di loro che ne hanno già fatta più di una nella loro storia musicale.
Il tentativo di quest’ultima rivoluzione doveva fare di The Gateway il punto di rottura con quel percorso lunghissimo, iniziato già da certe sfumature di Californication. È forse da lì, infatti, che è emerso quel funk-pop capace di dominare in maniera sempre più intensa gli album successivi, da By the Way a I’m with You, passando per Stadium Arcadium. Dietro a quel tentativo c’era probabilmente la voglia di rompere la convinzione comune, sempre più salda, di anno in anno, che i Red Hot Chili Peppers, ormai, erano quello, niente di più e niente di meno. Una calma piatta, fedele ed essenziale.
L’ascolto
E allora proviamo ad ascoltare questo Unlimited Love come il ritorno dei Red Hot Chili Peppers al loro luogo sicuro. E pensiamo che, in fondo, tornarci dopo essersi spinti altrove può avere il sapore di una piccola rivoluzione, perché non esiste esperienza che non ci rinnovi, arricchendoci. Anche se è stata un fallimento.
Così anche l’effetto dell’ennesimo ritorno di John Frusciante non è mai lo stesso del ritorno precedente (anche se magari ci si aspettava qualche traccia maggiore del suo excursus nell’elettronica di Maya, ultimo album solista), né lo è quello di Rick Rubin. È per questo che il ritorno al luogo sicuro del funk-rock (o pop) provoca all’ascolto il solito piacere, con l’aggiunta di qualcos’altro, qualcosa di nuovo.
D’altronde, è proprio quando il mare è in una calma piatta che anche la più piccola increspatura prende la forma di un’onda. Almeno per noi ascoltatori che, come surfisti, la stiamo aspettando. In musica, nella musica dei Red Hot, sono gli sprazzi di classe ed energia che non derivano soltanto da capacità soliste, ma da un affiatamento creato attraverso quasi 40 anni di carriera.
Le increspature e l’onda
Ed ecco che il solito, straordinario basso di Flea getta il fondamento per un jazz collettivo in Not the One o che The Great Apes libera la chitarra di Frusciante come ai vecchi tempi, e come ai vecchi tempi la voce di Kiedis le si intreccia spinta dalla batteria di Chad Smith.
E poi, a un tratto, arriva una vera onda, The Heavy Wing: basso flippante, voce melodica gettata nello spazio dagli effetti, batteria selvaggia e puntuale, e soprattutto John Frusciante in tutta la sua esperienza solista, da quel The Empyrean che emerge nel ritornello, alla parentesi elettronica che profuma di Maya. È bello, davvero bello cavalcarla: vale il prezzo della calma piatta.
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