Il classico Disney del 1997 Hercules si apriva con la domanda “Come si diventa un eroe?”. Sembrerebbe ora che, per il nuovo film targato Warner Bros Una Famiglia Vincente – King Richard, la domanda sia la stessa, nella declinazione “Come si diventa campionesse (le più forti del mondo, verrebbe da aggiungere)?”.
La trama
Anni ’90, California. In una periferia qualsiasi della cittadina di Compton, una famiglia si distingue dalle altre: si tratta dei Williams, formati da 5 figlie e due genitori che hanno le idee ben chiare sul loro futuro. Anzi, hanno un vero e proprio piano! Sin da prima ancora che nascessero le ultime due figlie, Venus e Serena, il padre, Richard, ha studiato un accurato sistema per far di loro campionesse su scala mondiale dello sport più “da bianchi” esistente: il tennis. Un percorso non facile e tutto in salita, ma che, a scapito delle statistiche, potrebbe davvero provare che King Richard aveva ragione nel dire che le sue figlie sarebbero diventate le migliori di tutti i tempi.
Un biopic (un po’) fuori dagli schemi
Tratto da una storia reale che ha dell’irreale, King Richard (titolo originale), diretto da Reinaldo Marcus Green, si pone come un biopic vagamente al di fuori degli schemi: pur non perdendo di vista una sorta di sguardo lacrimevole che contraddistingue queste opere, il film non parla in maniera diretta di quelle che effettivamente sono le star della situazione (vale a dire le sorelle Williams), ma pone l’attenzione sulla machiavellica figura alle loro spalle, il padre. Uomo egocentrico, a tratti presuntuoso, rigido, schematico, ma anche giusto, attento, compassionevole, Richard Williams è il vero Deus Ex Machina (insieme alla moglie, vale la pena ricordarlo così come pure nel film, seppur sommessamente, avviene) del successo internazionale delle figlie, rappresentando quindi un perfetto anti-eroe, che pure non diventa mai vero fulcro del racconto.
Dando per scontato che il personaggio del padre in difficoltà che lotta per un futuro migliore per la sua prole è, ormai, il ruolo cucito su misura per Will Smith, il film non sfonda la barriera dell’incredulità garantendoci un capolavoro, ma riesce senz’altro dove molti hanno fallito. Innanzitutto, si tratta pur sempre di un film sul tennis e Hollywood, soprattutto negli ultimi anni, ha più volte manifestato il suo interesse per questo sport, non riuscendo però mai a partorire opere che, soprattutto per chi non mastica questa disciplina, risultino fruibili e non tristemente banali o grossolane (avete presente La battaglia dei sessi? Ecco). Adesso il discorso, pur non diventando perfetto, riesce a migliorarsi, complice non solo una storia di per sé interessante (e la consapevolezza di quanto grande sia la portata del futuro non mostrato sullo schermo), ma anche l’adozione di una prospettiva particolarmente attuale.
Una nuova prospettiva
Dalla questione razziale, tema caldo per uno sport escludente come il tennis, fino al tema della salute mentale, in questo film si porta (moderatamente) in luce un sottobosco di problematiche che, pur essendo ben note agli appassionati, tendono a non essere mai volutamente mostrate o riconosciute: da Tracy Austin, “bambina prodigio” del tennis prima e fuoco di paglia dimenticato e dimenticabile poi, fino ad arrivare al più recente caso di Naomi Osaka, allo scandalo creato intorno al suo denunciare le pressioni psicologiche e il rischio concreto di burn out all’interno dell’ambiente del tennis professionistico, sappiamo ora quanto questo sport all’apparenza regale e sofisticato nasconda una faccia oscura e terribile.
Una famiglia vincente non fa nulla per nasconderlo o smentirlo, anzi, si sottolinea come alta fosse la preoccupazione che, per sfruttare la potenza delle giovani Williams, imprenditori e coach arrivisti potessero bruciare le tappe e buttarle in una spirale di pressione da competizione-contratti milionari-paura del fallimento destinata a decretare la loro fine professionale e non. Sia ben chiaro, anche Richard, il padre-manager delle due tenniste è, in fondo, mosso da arrivismo spesso spacciato per lungimiranza e “spirito imprenditoriale”, andando a romanticizzare l’aver cresciuto sin da principio due ragazzine come macchine da sport con la motivazione/scusa di tenerle lontane dalle strade e dalla malavita. Ma quale che sia la motivazione alle spalle, l’intento di garantire una parvenza di infanzia normale viene assicurata (o almeno, questo è ciò che accade nel racconto sullo schermo) a differenza di tanti casi visti, non solo all’interno di questa disciplina agonistica.
Purtroppo un discorso che poteva essere più complesso e consapevole, tirando in ballo tante altre terribili sfaccettature con cui le Williams stesse si sono confrontate nel corso della loro carriera (come ad esempio una palese misoginia di fondo), non viene mai affrontato per lasciare spazio al classico sentimentalismo dei film biografici e anche a un certo paternalismo a tratti difficilmente apprezzabile ma volutamente reso tale (gli anti-eroi vanno tantissimo).
Ciò che ne viene fuori, insomma, è un film che si fa guardare, senza infamia e senza lode, che deve probabilmente gran parte della sua attrattiva e del motivo per cui si segue con attenzione quello che viene proiettato sul grande schermo al fatto che, il pubblico, sa già quanto grandi saranno (sono) Serena e Venus Williams, quanto complesso sia il mondo del tennis per delle giocatrici professioniste e quanto sia stato culturalmente e socialmente importante l’ascesa in campo delle due tenniste americane.
E rimane, nel retropensiero di chi guarda, la consapevolezza che, nonostante il motto del film sia avere un piano per il successo, a fare la differenza e, dunque, fare di loro delle campionesse sia principalmente avere un padre pronto a tutto e, naturalmente, avere un talento innato.
Continuate a seguirci su FRAMED per altre recensioni dei film in sala.