Oscar per la miglior sceneggiatura originale a Emerald Fennell, Una donna promettente (Promising Young Woman, 2021) sarà dal 24 giugno nelle sale italiane. Esordio di Fennell alla regia, il film gioca con gli stilemi di genere per mandare un messaggio che ha più i toni di un grido di aiuto, di una chiamata alle armi delle coscienze.
C’è chi da bambina fantastica di esplorare lo spazio nei panni di astronauta, chi ama gli animali e sogna di essere veterinaria, chi ama così tanto la scuola (e comandare) da voler essere maestra. E poi c’è Emerald Fennell che, a sette anni, dice fiera in un filmino familiare: “I want to write stories about murder” [“Voglio scrivere storie di omicidi”]. Con la seconda stagione di Killing Eve e questo film alle spalle, cara Emerald, sei andata ben oltre.
Una donna promettente è un thriller, un drama, un romance, una mistura di generi che, in definitiva lo rende qualcosa di più della somma delle sue parti. È un’opera che fa del pop la sua forza visiva, in grado di accrescere per contrasto l’orrore più atroce. È un rape-revenge per procura che non vuole punire solo la violenza dei perpetratori, ma anche l’ignavia degli astanti e la condiscendenza di una società così iniettata di maschilismo da sembrare naturale, e l’unica possibile.
Meeting Cassie, la donna promettente
Cassie (Carey Mulligan) è una trentenne la cui vita sembra aver subito un arresto. La convivenza con i suoi genitori, l’impiego in un bar che si è andato a sostituire all’ambizione di diventare medico, gli atteggiamenti e i vezzi talvolta infantili: tutto questo ci suggerisce la presenza di un non detto gravoso. Ma ciò che ci mette in allarme, fin dalla sequenza introduttiva, prima dei titoli di testa, è una farsa che capiamo subito essere parte di un processo iterato, consolidato. Il setting è quello di un locale notturno, introdotto dagli eloquenti dettagli di parti del corpo maschili. La musica extradiegetica che accompagna i movimenti in ralenti fa della visione uno spettacolo a metà strada tra il sensuale e il grottesco.
Quest’ultimo aspetto prende decisamente il sopravvento quando, con uno stacco netto di montaggio e una brusca interruzione della musica, si passa a un campo medio di un gruppo di uomini (e sole tre donne) che ballano, ubriachi, sul palco. Il focus viene spostato su una conversazione maschilista tra tre colleghi in giacca e cravatta, che dà il via, grazie alla sua prevedibilità, a quella che riconosceremo a breve come pratica collaudata della nostra protagonista.
Cassie ci viene presentata, ubriaca, semi cosciente, sui divanetti del locale, in un campo medio dall’iconografia cristologica. Il capo reclinato, le braccia aperte ai lati del corpo, offrentesi al dileggio e al diletto degli astanti: e gli astanti abboccano. Ogni parola che esce dalla loro bocca trasuda un maschilismo che sembra quasi anacronistico per quanto è violento nei toni. Ma per fortuna il classico nice guy, quello che dei tre pare salvarsi dall’opprimente aura sessista, interviene per “salvarla”. Il sollievo si trasforma fin da subito in allarmante disgusto, quando il viscidume dell’uomo diventa palese, e dopo averla portata nel suo appartamento, si fa strada sul corpo di Cassie come su di una bambola inanimata. È la mezza figura di lei, sdraiata, che apre gli occhi e guarda in camera, cosciente e consapevole, a ribaltare ciò che stiamo guardando.
Perché Cassie mette in atto questa trappola? Perché vuole portare a galla la natura predatoria e senza scrupoli del genere maschile? Il titolo, pieno di cuori, ultrapop compare, facendoci entrare in medias res in una stasi sempre uguale che sta per incrinarsi e scatenare, forse, una feroce increspatura di vendetta e riscatto.
Se ora siete incuriositi, fermatevi, e tornate dopo aver visto il film. Perché da qui in poi saranno presenti spoiler.
Le donne promettenti
Dietro Cassie si staglia l’onnipresente ombra di Nina. I sette anni che sono passati dal suo suicidio sono diventati uno strappo nella linearità del tempo, in cui gli eventi hanno preso la forma del circolo sempre uguale a se stesso e privo di variazioni significative. Una sorta di loop creato dal trauma. Così come la vita di Nina si è interrotta, quella di Cassie sembra non aver mai veramente superato il trauma. Nina non può più crescere, diventare un medico, amare; e Cassie allora rimane una barista, una bambina diffidente che si traveste da donna solo per vendicare l’amica.
Sono due le donne promettenti la cui potenzialità è stata stroncata, rimanendo una promessa non mantenuta. E non per debolezze o difficoltà personali, bensì a causa di uno scontro violento con le dinamiche malate della società patriarcale. E per entrambe l’impedimento, la fine delle possibilità è duplice. La morte è solo il punto definitivo. È il trauma che la precede – e che lì le porta – ad innescare un circolo vizioso di dolore, vuoto e rimorso. Nina non riesce più a essere Nina, dopo lo stupro, che non le viene riconosciuto come tale. Cassie non riesce ad andare avanti, essendosi addossata una responsabilità che non le appartiene, quella responsabilità propria di una società che se l’è invece scrollata via con noncuranza.
Cassie prende su di sé il fardello di Nina, in un passaggio di consegne che ha il senso di colpa e la sorellanza quali suoi pilastri.
Not all men
Questo film è “cattivo” con i maschi. L’unica figura non connotata negativamente è il padre di Cassie, che insieme alla madre incarna un amore genitoriale di cui non si riesce bene a distinguere la tacita comprensione dalla cecità analitica.
Tutti gli altri sono delle persone orrende, abiette, di cui è possibile avere pietà solo laddove essa venga sanzionata da Cassie stessa. È il caso dell’avvocato di Al Monroe – il violentatore di Nina – che è riuscito con le minacce a convincere la ragazza a lasciar cadere le accuse. Non solo mostra di ricordare l’accaduto, ma di averne custodito un senso di colpa insopportabile, da cui Cassie è spiazzata. Il riconoscimento e l’ammissione della violenza e del torto è tutto ciò che Cassie desidera per la memoria di Nina, e per placare i suoi demoni.
C’è veramente bisogno di lamentarsi della rappresentazione degli uomini in questo film? È impossibile fraintendere le intenzioni di Una donna promettente. Si tratta apertamente di una presa di posizione netta, di una totale assunzione della prospettiva femminile in quella dinamica di potere di cui lo stupro è l’estrinsecazione più diretta, più connotata. Quello di Emerald Fennell è uno statement politico, che per diventare parabolico deve farsi manicheo. Lo sappiamo che non tutti gli uomini sono così; ma in questa fiaba, scandita dai capitoli pastello della vendetta di una Sposa tarantiniana, così deve essere.
La dichiarazione più forte è fatta tramite la scelta di connotare come ancora più spregevoli i bravi ragazzi. Sono rappresentati come agnellini pronti a trasformarsi in leoni. La scelta di Adam Brody come nice guy del segmento iniziale è perfetta: capitalizzando sull’immaginario collettivo, Fennell produce il primo, fortissimo shock in noi spettatori. Chiunque, anche chi come me non ha mai visto The O.C., ha sempre letto – e probabilmente sempre leggerà – la figura attoriale di Brody alla luce del personaggio di Seth Cohen, come espressione ultima del ragazzo della porta accanto, dolce, sensibile, innocuo.
Ma narrativamente parlando è la rivelazione su Ryan (Bo Burnham) ad atterrire maggiormente, tant’è che la seconda volta che ho visto il film il montaggio di lui e Cassie con Stars Are Blind di Paris Hilton mi ha letteralmente stracciato il cuore. Cassie fa una fatica immane a lasciarsi andare con Ryan, anche se visibilmente le piace, e si trova a suo agio con lui. Quando lui la invita a salire nel suo appartamento, dopo il loro primo appuntamento, Cassie gela, e noi con lei. È il ripresentarsi di una situazione profondamente connotata, che la mette in guardia, la rende restia.
L’orrore si cela dietro visi aperti, simpatici, dietro un atteggiamento da compagnoni, non è immediatamente identificabile in un’iconografia ben definibile. Il maschilismo e la violenza di genere sono pervasivi, chiunque non faccia onestamente i conti con se stesso e con i suoi privilegi rischia di cadere in automatismi da sradicare.
Una vendetta quasi senza genere
Il film è cadenzato da quattro momenti, quattro spunte su una lista immaginaria. E due di queste sono donne: Madison (Alison Brie), “amica” dell’epoca, ed Elizabeth Walker (Connie Britton), rettore dell’università. Salvo forse Al Monroe, Cassie sembra mettere i ruoli, le colpe delle persone coinvolte tutte sullo stesso piano. Non importa se, come nel caso di Madison, si tratti di una testimone che con noncuranza ha liquidato il fatto con un “se l’è cercata”, o, come nel caso di Walker, un’autorità che non ha fatto valere il suo potere per agire la giustizia. O, come nel caso dell’avvocato, uno sfruttamento spregiudicato della propria posizione ai poco stimabili fini della difesa a tutti i costi di un violentatore.
La vendetta cade cieca. Ma è impossibile non notare uno scarto. Entrambe le donne vengono spaventate, messe in una situazione di terrore in cui il pericolo non è mai stato reale. Per entrambi gli uomini – con l’incognita del destino di Ryan – la violenza viene necessariamente implicata. Il sicario era pronto fuori casa dell’avvocato, salvo essere sollevato dall’incarico a seguito dell’inaspettato perdono. Su Al Monroe le barriere cadono e la violenza viene praticata – tuttavia solo in potenza – da Cassie stessa. Questa scelta mi è sembrata l’ennesima presa di posizione: le donne vengono dipinte come risucchiate in un sistema a cui molto spesso non riescono a ribellarsi, e quindi quasi “scusate”, tacitamente comprese.
Quando su Cassie si scaglierà l’infantile furia omicida di Al, che fa un passo oltre l’autoconservazione per risultare legittima, sarà impressionante come il suo corpo verrà trattato alla stregua di un oggetto. Vedete qualche differenza rispetto al trattamento subito dalle donne in una realtà maschilista dominata dallo sguardo dell’uomo? – sembra chiederci Emerald Fennell. La noncuranza con la quale ce ne si libererà, ma ancora prima il modo in cui Joe, l’amico di Al, vi si rapporterà, sono agghiaccianti.
Ma parliamo del finale. Senza senso, grottesco, un passo indietro rispetto alle premesse, brutto, così è stato definito. No. Il film continua a giocare con il suo spirito pop, con le convenzioni di genere. Il riequilibrio che il rape-revenge mette in scena, con la trasformazione della vittima in carnefice, non si attua pienamente a un soffio dalla fine. Una donna promettente non si configura quindi come riscatto finzionale sulla realtà, come valvola di sfogo di un piacere di rivalsa inattuabile, ma come riproposizione della tragicità e criticità del reale. L’annullamento del femminile sembra essere l’unica condizione – per ora – possibile nella nostra società, e l’unico modo in cui una reale vendetta riesca ad essere attuata. Solo dall’aldilà, lo spirito di Cassie, la pianificazione studiata derivante da un destino che temeva l’attendesse, ha una rivalsa che sa di amaro.
Emerald Fennell
Questo film ha scatenato in me aspettative incontrollabili per l’opera futura della regista. Senza ostentazione, la cura simmetrica di molte inquadrature crea quadri che sono già iconici. I meravigliosi colori che riempiono gli occhi attraversano il film definendone il tono, acuendo i contrasti, dando espressione alla sua protagonista.
L’apparente scarso approfondimento di Cassie è un sintomo del suo procedere sulla superficie della vita, impossibilitata ad affondare nella profondità di legami interpersonali, chiusa in una gabbia di dolore e placida rabbia ormai da troppo tempo. Le scelte di fotografia, illuminazione e colori danno la misura del dramma che cova in lei (penso alla scena buia in cui sul letto muove i primi passi della sua vendetta). E a mio parere la gamma cromatica accesissima e pastello, e lo stesso smalto arcobaleno di lei, così come rendono il film pop, un’apparente romance di altri tempi, allo stesso modo relegano Cassie nella sfera dell’infantile.
I colori diventano una sorta di travestimento, sia del film che di Cassie, che ci sembra nascondersi dietro una corazza tanto nel verde acqua e nell’arcobaleno, quanto nei bianchi e neri neutri. Il travestimento definitivo sarà quello da infermiera sexy con parrucca multicolore: una violazione caricaturale della sua ambizione professionale, una distorsione sessuale del sogno di diventare medico. La sequenza di Cassie che si avvicina alla casa – e alla resa dei conti – con un arrangiamento al violino di Toxic di Britney Spears è già impressa nell’immaginario.
Ho apprezzato infinitamente i riferimenti a un film che amo molto, La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, 1955) di Charles Laughton. Ma Cassie chi è? Il rovesciamento del delirio misogino di Robert Mitchum? O il riflesso disorientato di una bimba braccata che si canta una ninnananna, come la Lullaby di Pearl, che qui risuona nel momento di totale perdita di riferimenti, ci suggerisce?
Le immagini che Fennell ha saputo creare con questo film difficilmente svaniranno. Su tutte, Cassie che distribuisce l’alcol ai membri dell’addio al celibato di Al, in una rappresentazione che ricalca l’iconografia di una violenza orale. E a proposito di oralità, Fennell fa una comparsata stile hitchcockiano nel film: è lei la dispensatrice di consigli sulle labbra da perfect blowjob che Cassie guarda mentre si prepara per l’ennesima nottata di caccia.
Guardatelo, capitelo e riconoscetene l’importanza. Ciò che mi auguro non è che lo amino tutti, ma che tutti, in diversa misura, ne vengano sballottati. Spero che a chiunque, sottopelle, rimanga un frammento di Una donna promettente, a monito, a disturbare, ad agire come parossismo di una realtà che è quotidiana, come allarme per la propria coscienza.
Dopo un simile esordio alla regia, inutile dire che fremo impaziente per la prossima opera di Emerald Fennell.
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