Tre piani è il ritorno sul grande schermo di Nanni Moretti, che attendevamo voracemente, a sei anni di distanza dall’ultimo lungometraggio, Mia madre (2015), eppure in all’erta, con la paura di inciampare in una storia che poco ci avrebbe ricordato un cinema che continuiamo a prendere come riferimento, erroneamente.
Guardare infatti Tre piani avendo in mente un’immagine di Nanni Moretti relegata al passato è un grosso errore, che porta a valutarlo come un’occasione mancata, invece che come un’opera che semina le proprie immagini nell’inconscio continuando a significare, anche molte ore dopo la visione. Per questo è da non perdere.
Il romanzo di Eshkol Nevo
Per la prima volta, nella cinematografia di Moretti, l’adattamento di un romanzo: Tre piani dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (Neri Pozza Editore). Il libro, ambientato a Tel Aviv, racconta tre storie distinte, tre monologhi che riflettono le sofferenze e i timori dei componenti del tessuto sociale. La famiglia è il microcosmo in cui le paure prendono vita.
I racconti riflettono le componenti della teoria freudiana: Es, Io e Super-Io. L’allegoria diventa manifesta quando il giudice, inquilino del terzo piano, acquista l’opera di Freud per approfondire i significati di un suo sogno.
La rilettura del testo
Nel film Tel Aviv diventa la città di Roma, cara al regista (i dettagli delle abitazioni e il balcone dell’ultimo piano ricordano malinconicamente la casa di Aprile). Le tre storie, non più separate come nel libro, si intrecciano e compongono un’unica anima che in sé racchiude tutto ciò di cui Freud parla, condensandolo in 10 anni di svolgimento temporale.
Il regista, assieme alle sceneggiatrici Federica Pontremoli e Valia Santella, compie un grande lavoro sul testo che diventa il punto di forza che coinvolge lo spettatore fino alla conclusione.
La magia del testo letterario fatta di immagini descritte solo a parole si riversa nel racconto cinematografico assumendo il ruolo più affascinante della visione. La “magia” surreale di tempi sospesi e azioni ridotte al minimo smussa gli angoli appuntiti di una serie di scelte incaute circa la messa in scena di un’eccessiva, lenta, sofferenza. Ne è piena dimostrazione il personaggio di Monica (Alba Rohrwacher), che vive al secondo piano e dà forma all’onirico, spaventoso e pericoloso.
Pregi e difetti
Il film è stato presentato in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes. Conquista 11 minuti di scroscianti applausi, ma questo non lo esula da una serie di pieni e vuoti che lo rendono a prescindere un film imperfetto. E ora, in sala dallo scorso 23 settembre, vive nella situazione critica di simboleggiare l’opera di non ritorno per il regista. Ed è così, poiché sancisce una nuova età del cinema di Moretti.
Tre piani non è un film innovativo, e non sembra uscito dallo stesso sguardo de Il caimano o Habemus Papam. Se lo avessi visto senza sapere chi fosse l’autore, Moretti sarebbe stata la mia ultima scelta. Totalmente assente è l’ironia, che anche in una tragedia come La stanza del figlio (2001) portava luce tra le ombre dell’inevitabilità. Questo perché il regista abbandona consapevolmente il passato.
La costruzione di un dramma stratificato, sulla base di un testo altrui, non è facile da sostenere. Soprattutto dopo aver affrontato per una vita lo stesso, ormai iconico, scenario. Lo si capisce dai dialoghi, spesso affettati e freddi, che ricordano spaventosamente quelli del film che lo stesso Nanni Moretti va a guardare al cinema durante l’estate romana di Caro Diario.
E quegli “invecchiati e inaciditi” borghesi sbiaditi sono la minaccia che incombe sui protagonisti di Tre piani: basterebbe pochissimo per farne l’ombra di se stessi azzerandone ogni intensità. Il rischio viene corso più e più volte, colpa anche di alcuni componenti del cast la cui recitazione impostata tende a togliere veridicità, buttandoci fastidiosamente fuoristrada.
Eppure, nonostante questi siano i difetti, i pregi ne compensano l’effetto. Tre piani è un cambiamento di rotta per cui Moretti deve ancora prendere bene le misure, ma non per questo un viaggio da non intraprendere. In sé porta quel ragionamento sulla genitorialità ancora irrisolto, lo scandagliamento del trauma, la sua presenza come infezione incurabile e costante nel tempo.
La nuova vita che interessa a Nanni Moretti va al passo con il suo tempo, e non quello di chi ne scrive (ovvero me in questo istante). E quell’ironia tagliente si sposta dal grande schermo ma permane nell’uomo che ha cambiato rotta, rimanendo in fondo sempre lo stesso (a questo proposito leggete il suo post Instagram successivo alla premiazione).
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