Con una Palma d’oro a Cannes e una possibile nomination agli Oscar, Titane sta percorrendo il classico tour de force nel tritacarne delle premiazioni internazionali. Lo fa senza mitigare la sua fondamentale estraneità al contesto, un po’ come lo spillone fermacapelli di Alexia: sempre in bilico tra oggetto domestico e arma letale.

Nei suoi pochi mesi di esistenza compiuta il film ha ricevuto critiche contrastanti, sopravvivendo al chiacchiericcio sensazionalistico delle prime proiezioni e guadagnando il rispetto di chiunque ne riconosca la singolarità – e sia disponibile ad accoglierne i difetti, in nome di un nuovo cinema possibile. Ed è a partire da questi che costruiremo il nostro discorso, per capire come Titane parlerà (e sta già parlando ora, a chi intende la sua lingua) al pubblico e ai cineasti del futuro.

Sensazione e narrazione

Chi non ha amato il film spiega la propria avversione in diversi modi. Ad esempio col disorientamento di fronte a una trama che cambia continuamente le carte in tavola, tradendo le aspettative e portando il film in direzioni inattese. L’impossibilità di anticipare il corso degli eventi, unita al martellante assalto sensoriale della prima mezz’ora, sembra aver bloccato sulla soglia dell’immedesimazione chiunque si aspettasse una narrazione più coerente e centrata. Ma le priorità del film sono altre. Come la costruzione di un’esperienza spettatoriale fortemente investita (nella doppia accezione traumatica e psicanalitica) sul piano emotivo.

La regista ha una proficua frequentazione con l’horror e un’approfondita conoscenza dei manuali di anatomia umana: indulgere in dettagli gore non è tanto un esercizio di violenza gratuita, quanto un codice comunicativo che le permette di arrivare direttamente alle terminazioni nervose di chi guarda. È il naso di Alexia che si rompe ed è il nostro naso che teniamo in mano, cadendo nella minuziosa trappola audiovisiva tesa a farci immedesimare nel dolore (auto)inflitto dalla protagonista. La percettività insistita della prima parte del film riesce curiosamente a trasmetterci tutto quello che dobbiamo sapere su di lei, con un imprinting preverbale che ci libera dai convenevoli della narrazione classica e blandisce il nostro cervello rettiliano.

Il principio di indeterminazione di Ducournau

Tanto più è precisa la sensazione, tanto meno è prevedibile l’azione. Troviamo spesso Alexia ad un bivio tra due situazioni opposte: ogni scelta scarta tutti i mo(n)di possibili in cui Titane potrebbe diventare un film già visto – anche a detrimento della sua fruibilità per un pubblico più ampio. È un film sulla violenza subita da una donna? No. È un film su un’assassina in fuga? No. È un film sulla redenzione criminale? No. L’attraversamento delle convenzioni di genere è sicuramente una priorità, ma al lavoro nell’ombra c’è anche un’altra esigenza. Quella di costruire per la protagonista una trappola sentimentale che le dia, suo malgrado, accesso alla propria umanità.

La contraddizione del realismo

La gravidanza a mezzo automobilistico è, per Titane, il cavallo di Troia che ha consentito l’ingresso in forze di considerazioni sulla mancanza di realismo dell’assunto di base. È difficile dare credito a queste considerazioni, per due motivi fondamentali. Il primo, macroscopico, è che sottrarre al cinema la sua componente speculativa e finzionale è come augurarsi che muoia domani. Non esistono premesse, per quanto folli, che una buona scrittura filmica non riesca a giustificare; né assunti, per quanto realistici, che una cattiva scrittura non riesca a rovinare. Il secondo, più sottile, è che dentro Titane il realismo prospera appena sotto la superficie, e diventa evidente nelle relazioni tra i personaggi.

Se la scrittura di personaggi credibili era già fondamentale per la riuscita di un film rischioso come Raw, in Titane c’è in ballo qualcosa in più e in meno allo stesso tempo. C’è in meno la necessità di umanizzare il cannibalismo: la devianza di Alexia è tutto sommato meno problematica di quella di Justine – finanche la TV generalista si abbevera volentieri alla fonte dell’omicidio seriale. C’è però in più il bisogno di tracciare un arco narrativo plausibile per una protagonista che parte bestia braccata e finisce madre a(rche)tipica.

In questo senso l’ingresso di Vincent funziona come catalizzatore dei processi intrapsichici di Alexia, offrendole uno spazio come simulacro del figlio scomparso che si allarga progressivamente fino ad accoglierla nella sua radicale differenza. Amore è donare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole diceva Jacques Lacan. Non c’è definizione più calzante per descrivere quello che succede ai due protagonisti.

L’umorismo in Titane

Un’altra incarnazione dell’insospettabile realismo di Titane sono le aree comiche di decompressione disseminate lungo tutto il film. A volte si tratta di easter egg appena percepibili, altre volte si articolano in sequenze centrali per l’economia del racconto (la rianimazione con la Macarena). È un’ironia che ci avvicina a personaggi altrimenti difficili da inquadrare, una tregua momentanea. Una safeword che ci dice che lo scopo di Ducournau non è lasciarci senza sensi, ma testare i nostri limiti per non trascendere il tollerabile.

In breve

Ogni gestazione è un atto creativo, con o senza l’aggiunta di parti meccaniche ed olio motore. Quella di Titane è spaventosa e devastante, ma in fondo ottimista. L’umanità non è mai guasta abbastanza da non riuscire a rinascere, e anzi l’ibridazione sembra l’unica via praticabile per la sopravvivenza. Se questo è vero per la vita, perché non dovrebbe essere valido per il cinema?

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