A partire dalla sigla, The White Lotus costituisce un viaggio sensoriale nel cringe, dando il meglio con la seconda stagione ambientata in Sicilia.
L’importanza dell’accoglienza sonora: in Kubrick come in una serie TV
Vi siete appena seduti sul divano, pronti alla visione di uno dei capolavori assodati della Storia del Cinema, 2001 Odissea nello Spazio. Non importa su quale piattaforma streaming lo stiate per guardare o se siete abbastanza demodé da metterlo in DVD: appena spinto PLAY, prima ancora dei titoli, verrete accolti per diversi, infiniti secondi da uno schermo nero, animato soltanto da inquietanti rumori ancestrali.
Dovrete guardarli tutti quegli oscuri secondi, in tensione e con attenzione, non potrete mandare avanti, semplicemente perché avrete paura di perdere qualcosa che potrebbe emergere all’improvviso dallo schermo nero. Non comparirà nulla, alla fine, se non una sensazione forte, intensa, impossibile da ignorare. Stanley Kubrick vi ha appena accolto dentro il suo film, siete al suo interno ora, senza alcun dubbio che la realtà sia quella davanti ai vostri occhi e non ce ne sia altra all’esterno.
Un momento determinante del film, inserito in uno spazio che precede il film stesso, esattamente quello dove anche le serie TV dispongono le loro sigle: un’accoglienza, anche quella, quasi una preparazione alla visione in alcuni casi, sulla quale però, spesso, spingiamo il tasto SKIP, “salta”.
Ma ci sono casi in cui non riusciamo a farlo, per quanto quella sigla l’abbiamo già vista e rivista, vogliamo vederla ancora una volta. Uno di quei casi e The White Lotus.
The White Lotus main theme
Proprio come accade per The White Lotus, la serie targata HBO (di cui qui su Framed Magazine abbiamo già parlato) che, nelle sue due stagioni, ci porta nel lussuoso mondo dei Luxury Resort, prima delle Hawaii, poi della Sicilia. Di fronte alla sigla di questa serie restiamo passivi a contemplarla nei suoi giochi visivi fatti di disegni piatti sui quali la camera avanza e indietreggia, zoomando su particolari forse irrilevanti, mentre la musica ripete in modo ossessivo il tema principale, in una crescente distorsione della melodia che ipnotizza l’ascoltatore in un vortice di ansia strisciante.
Due stagioni, due diverse sigle: una stessa formula, apparentemente identica. Come apparentemente è identica la struttura narrativa. In entrambe le stagioni, restiamo lì a guardare l’intro, per ogni singola puntata, anche se non ci aspettiamo che qualcosa cambi o che la nostra attenzione colga un particolare nuovo. Quello che ci tiene lì è un senso di tensione che già ci sta portando dentro la narrazione.
Le differenze tra prima e seconda stagione
“A music that makes you feel like there’s gonna be some kind of human sacrifice at some point”: è stata questa la richiesta di Mike White, creatore e regista della serie, al compositore cileno-canadese Cristobal Tapia de Veer. E lui l’ha soddisfatta, ben due volte, dando una continuità tra la prima e la seconda stagione attraverso una variazione dello stesso tema.
La prima, Aloha!, è un gioco di fiati e percussioni tribali nel quale flauti hawaiani diventano sospiri umani e gemiti animaleschi, mentre lo schermo viene attraversato da immagini sinistre di frutta marcia e pesci morti, nascosti sotto una carta da parati in stile tropicale.
La seconda stagione si apre con Renaissance: il placido pizzicato di un’arpa si nasconde immediatamente sotto la melodia di un pianoforte che suona il tema principale, trovando grazia in un coro lirico che però, al tempo stesso, rivela la ritmica irregolare dello strumento e la sua instabilità, fino a cadere in una dissezione elettronica dove l’armonia si distorce incerta, spinta verso il precipizio da percussioni, progressioni di accordi minacciosi e suoni atonali. Sullo schermo scorrono una serie di immagini che sembrano rimandare a un prezioso classicismo, statue e architetture iconiche sulle quali l’occhio della camera indaga, concedendoci il dubbio (provato) che nel suo simbolismo siano racchiusi una serie di indizi.
Ma i fiati tribali della prima e i cori lirici della seconda non sono semplicemente due strumenti che, producendo lo stesso tema, scandiscono la distanza tra due luoghi e due culture. Così come le due trame si assomigliano, dettando delle piccole differenze che cambiano ogni cosa. Prima tra tutte, la sensazione differente che provocano nello spettatore.
Le differenti sensazioni
Aloha!, la sigla della prima stagione, infatti, infonde un denso senso di mistero attraverso il ritmo dei suoi fiati, quasi a riproporre l’inquietante primo piano col quale Hitchcock inquadrava l’oggetto che avrebbe poi ucciso uno dei personaggi. Qui la distorsione elettronica si nasconde per rimarcare un accento ironico che trasmette allo spettatore lo sfondo satirico della narrazione, la sua feroce ironia sul lusso sfrenato e il potere del denaro.
Con Renaissance e la seconda stagione, il tema melodico resta lo stesso, come resta invariato lo schema narrativo della serie: nella prima scena, viene ancora presentato un paradiso del lusso dove avviene un misterioso omicidio, a partire dal quale le puntate si sviluppano come un lungo flashback che lo ricostruisce. Stesso tema musicale, stesso plot narrativo. Eppure tutto è radicalmente diverso. A partire dalla sensazione che la sigla ci scatena: non c’è più il mistero e l’inquietudine dei flauti hawaiani, ma quel coro rinascimentale che si spezza, si rimodula, si velocizza e si distorce, la sacralità di una voce corale dissacrata dall’uso straziante di un sintetizzatore.
Col suo titolo, Renaissance si muove in un doppio senso, il Rinascimento a cui rimanda è anche una rinascita sotto una forma che ne cambia il contenuto. Di conseguenza cambia anche la sensazione di chi lo ascolta: siamo prima attratti da qualcosa di armonico verso cui le nostre orecchie sono abituate, e poi veniamo respinti dalla disarmonia, dal tradimento di ciò di cui stavamo godendo. Proviamo un disprezzo destinato a trasformarsi ancora, dandoci una strana sensazione di piacere, di fronte al quale proviamo imbarazzo, vergogna, disagio. È ciò che “potrebbe provare un adolescente vedendo uno dei suoi genitori che balla in pubblico una canzone trap”: così scrive la Treccani per definire quel concetto anglosassone intraducibile che prende il nome di cringe.
Il cringe e le sue evocazioni nel cinema
Il Cringe è un concetto che si rintraccia spesso oggi nella produzione audiovisiva, senza però trovare mai una vera e propria messa in scena che ne determini la nascita come categoria estetica.
Finora, nel cinema e nella tv è apparso perlopiù come un errore, una sensazione provocata involontariamente nello spettatore. Fa eccezione, forse, un certo cinema, che sembra evocarlo senza però spingersi fino in fondo a metterlo in scena, come fa Lanthimos nello splendido La Favorita, o Östlund in certi spunti aperti come tagli di Fontana nella sceneggiatura dei suoi film (dall’intervista all’artista a proposito dello spettatore malato di Tourette in The Square, alla porta dell’ascensore che continua a chiudersi nella discussione tra i due protagonisti di The Triangle of Sadness).
La seconda stagione e il cringe come categoria estetica
La seconda stagione di The White Lotus ha la capacità e il coraggio di mettere in scena il cringe e farne così una categoria estetica.
A partire appunto dalla sigla: all’inizio di ogni puntata la ascoltate, la guardate, ma non comparirà nessuna certezza, alla fine, se non una vaga intuizione, forse, meglio, una sensazione forte, intensa, impossibile da ignorare. Siete già entrati dentro The White Lotus, senza alcun dubbio che la realtà sia quella davanti ai vostri occhi. E che questa realtà è cringe.
Perché Renaissance ci ha introdotto in un linguaggio specifico, quello particolare parlato da ogni categoria estetica, e da lì in avanti, sequenza per sequenza, il nostro sguardo non potrà più rivolgersi con la naturalezza che rivolge solitamente al cinema.
Prima ancora di iniziare davvero la visione di The White Lotus, siamo già complici e strumenti passivi di quell’imbarazzo che pervade ogni scena, distorta come la musica iniziale. Ed è sempre la musica a dettare la nostra sensazione, stavolta nel suo accompagnare le immagini: scene atroci con le splendide parole di De André che costellano la colonna sonora di questa seconda stagione.
La Canzone dell’Amore Perduto, Bocca di rosa, Via del Campo, Preghiera in gennaio, La stagione del tuo amore: l’amore, la speranza, la passione, il dolore di un artista che non può essere gettato in tanto orrore per caso, per un’assurda appropriazione culturale, per un mero, banale errore. Eccolo il cringe, allora. Ecco De André che, come un nostro genitore, balla sulle note di immagini che lo contraddicono, lo ridicolizzano, provocando in noi un evidente, inevitabile, intenso imbarazzo.
La satira della prima stagione ha una forza nuova, ora, una forza che nel cinema e nei suoi fratelli minori non si è mai vista. Un rischio, certo, quello enorme di essere fraintesi. Ed è ancora una volta HBO a decidere di correrlo, producendo qualcosa che va al di là del gusto comune, e lo innova, come devono fare le opere d’arte per distinguersi dai semplici prodotti di consumo e d’intrattenimento.
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