Sono le 21.30 e la luce del sole non accenna ancora a sparire in una rovente sera di mezza estate a Madrid. È il 18 luglio, la prima volta di Abel Tesfaye, in arte The Weeknd, in tour nella capitale e nella stessa Spagna, se si esclude qualche partecipazione all’interno dei festival più noti, come il Primavera Sound di Barcellona.
Non sarà l’ultima, assicura lui, accolto con grande entusiasmo dallo Stadio Civitas Metropolitano, dove è di casa l’Atletico, quasi sold out.
C’è ancora tempo prima che l’artista canadese salga sull’enorme palco: una città in miniatura che nasconde i musicisti fra i suoi “grattacieli” e una passerella lunga quanto l’intero campo da calcio, che culmina di fronte a una gigante luna piena. Tempo che permette di soffermarsi su ciò che si presenta davanti ai nostri occhi.
La storia che The Weeknd vuole raccontare attraverso ogni live show di questo tour europeo parte proprio da qui, dallo spazio che lui occupa per due densissime ore di concerto in cui strizza circa 30 dei suoi successi degli ultimi anni.
Il suo palco è il pulpito da cui si fa sacerdote di un rito collettivo e in cui, scriverà poi su Instagram, lui stesso ritrova la fede (inside joke riferita chiaramente al brano Faith dell’album After Hours) nel contatto con il pubblico. Un pubblico nuovo, che incontra per la prima volta dall’altra parte del mondo a consacrazione di un percorso di crescita artistica esponenziale dal 2020 a oggi.
La Metropolis inchinata a una Dea-Robot
Chiunque abbia preso in mano almeno una volta nella vita un manuale di storia del cinema lo nota subito il parallelismo tra questo palco e il capolavoro di Fritz Lang, Metropolis (1927). Grandi edifici che inglobano l’umanità (i musicisti invisibili al pubblico e inghiottiti dalla scenografia) e soprattutto il legame, misterioso e perturbante, tra uomo e androide che The Weeknd aveva già esplorato circa dieci anni fa con Echos of Silence, il singolo title track del suo terzo mixtape (2011).
Già quel videoclip aveva come protagonista la “Sexy Robot” ideata da Hajime Sorayama che adesso, sul palco, diventa una gigante divinità, alta quasi 30 metri, al centro della passerella tra la Metropoli Cromata e la Luna. È lì, ai suoi piedi, che troverete spesso l’artista, attirato da una forza che lui stesso vuole descrivere come sovrannaturale in questa particolare narrazione dove tutto è rito.
Prima ancora del suo ingresso, The Weeknd è preceduto da una trentina di ballerine, incappucciate in vesti bianche che impediscono di coglierne le fattezze. Il loro movimento ipnotico e cerimoniale, in-umano, è lo strumento attraverso cui entrare in questo storytelling, fino al momento in cui The Weeknd fa il suo ingresso, in outfit post-apocalittico e total white, anche lui, e l’ormai iconica maschera cromata che coprirà il suo viso per metà esatta del concerto, senza impedirgli di cantare perfettamente anche le note più alte (nell’insopportabile caldo del Civitas Metropolitano).
In quella maschera cromata The Weeknd incide un simbolo di rinascita, solo suo e al tempo stesso valido per tutti i presenti. Si inchina, a metà show, ai piedi dell’enorme divinità (che sia la Musica o la Donna, entrambe o nessuna, poco importa) e si spoglia con solennità di quella barriera che impediva il contatto diretto con il pubblico.
Da sacerdote della Sorayama, enigmatico e concettuale, diventa predicatore. Lascia cadere ogni distanza e accoglie il pubblico dentro la seconda fase del rito: il ritmo, i corpi, la dance.
La scaletta di After Hours Til Dawn
Già il nome del tour dovrebbe far intuire tutto. After Hours Til Dawn ha in sé un passaggio verso una nuova alba, una rinascita, una celebrazione. È anche, ovviamente, l’unione dei titoli dei due ultimi album di The Weeknd, protagonisti della scaletta. Da Take My Breath, con cui sceglie di iniziare, a Out of Time (la sua preferita, dice, e si nota dalla gioia con cui la canta), da Heartless a Save Your Tears, senza saltare nessun grande successo degli ultimi anni, come la collaborazione con Swedish House Mafia (Moth to a Flame) né le sue celebri cover. A Madrid sceglie Creepin’, ossia il brano cult di Puff Diddy I Don’t Wanna Know.
Non sono mancati i brani della colonna sonora di The Idol, fra tutti Popular e – prova che nonostante la serie non abbia avuto il successo sperato, il fandom resiste – tutto lo stadio li ha cantati insieme a lui.
C’è tutto, comprese le spettacolari fiamme al ritmo di The Hills (che momento!) ma non aspettatevi un bis. La sua sparizione definitiva fra le luci della Metropoli Cromata è coerente con ciò che costruisce nelle due ore di show. Non può tornare, perché spezzerebbe la magia.
Nessuna durata sembrerebbe comunque sufficiente di fronte allo spettacolo che The Weeknd è riuscito a creare. Una sospensione del tempo e dello spazio in cui l’unica cosa che conta è sentire i bassi di After Hours battere dentro il petto, muovere le gambe, le braccia e il corpo intero al ritmo di I Feel it Coming scrollando via ogni pensiero, farsi ipnotizzare dal gioco di luci in Blinding Lights, dedicare alla grande Luna i propri pensieri urlando Call Out My Name.
La bellezza di tutto questo, come sempre, è farlo insieme a migliaia di persone, la cui voce si unisce alla tua, in un ruggito che sa di vita.
Bonus Track
In altre tappe del tour potreste riuscire a sentire anche D.D., la sua cover di Dirty Diana, collegamento diretto con il Re del Pop, Michael Jackson, a cui The Weeknd si sta avvicinando sempre di più, non solo attraverso omaggi e similitudini vocali, ma per l’impatto che la sua figura, la sua carriera e il suo successo discografico rappresentano per la musica contemporanea.
L’ascesa verso il trono del Pop è ancora lontana, ma manca ancora la terza parte della sua annunciata trilogia, quella che verrà dopo aver fatto cadere ogni maschera (le bende di After Hours, le rughe e le cromature di Dawn FM) rivelando una forma nuova. Forse a quel punto, come aveva fatto intuire, abbandonerà anche il nome d’arte per tornare al suo vero nome.
Adesso sappiamo soltanto ciò di cui possiamo fare esperienza e che ogni data di questo After Hours Til Dawn Tour è un passo ulteriore verso la sua trasformazione. Fa parte del rito e lui ne è l’officiante.
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