Il classico dei classici, l’Odissea, riletto da Uberto Pasolini in The Return, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2024 nella sezione Grand Public. Nei panni di Ulisse e Penelope, Ralph Fiennes e Juliette Binoche si sono uniti alla proiezione in anteprima di sabato 19 ottobre. Il film arriverà nelle sale italiane il 30 gennaio 2025 con 01 Distribution.
Fino a The Return erano almeno 70 anni che Omero non veniva portato sul grande schermo. Come e perché un regista sceglie adesso di sfidare se stesso, prima di tutto, con un film del genere? “Perché non prima e perché nessuno migliore di me?”, esordisce in conferenza stampa Pasolini, con una grande (auto)ironia che caratterizza l’intero scambio con i giornalisti presenti.
“Sono 30 anni che provo a fare questo film. Ci ho messo più io a realizzarlo che Odisseo a vincere la guerra, dormire con tutte le donne più belle del Mediterraneo, e finalmente tornare a casa”, scherza il regista. “La passione per l’Odissea è una passione infantile, ma più si invecchia, più si legge l’Odissea, più ci si riconosce nelle emotività, nella problematica, nella psicologia delle persone. Io non li chiamo neanche personaggi, sono persone. Perché? Perché i miti hanno una vita, in questo caso millenaria, e perché in questi miti noi ci riconosciamo“.
Ciò che ancora oggi l’Odissea comunica al presente non è l’eroismo di Ulisse: “Io mi riconosco non eroe, ma marito, padre fallito. Mi riconosco nei ritorni difficili a casa, dopo aver vissuto lontano dalla mia famiglia, perché il lavoro ti porta lontano”.
The Return, come l’Odissea, racconto di un viaggio interiore
La chiave per poter realizzare un film del genere, prosegue Pasolini, è avere chiaro che lo si fa per se stessi: “Sono io il mio primo spettatore. Non è stato nostro intento fare un film didattico, per insegnare qualcosa o ispirare qualcuno”. L’Odissea, cioè, è una ricerca interiore, così come conferma anche Ralph Fiennes.
“Per interpretare un ruolo del genere non serve imparare a navigare in mare, serve avere accesso alla propria immaginazione, all’immaginazione emotiva più profonda. Per diventare Odisseo mi sono chiesto cosa significa veramente tornare a casa e cosa significa veramente essere così esausto fisicamente. Non ho fatto vera ricerca “storica” per il ruolo, ho preferito lavorare con Juliette (Binoche, ndr) per interpretare al meglio i tumulti del cuore e della mente”.
Anzi la ricerca, aggiunge, “non serve davvero quando sei sul set, non significa nulla, perché devi essere pronto a cogliere il momento e le indicazioni del regista. Essere preparati significa essere aperti a cogliere l’attimo davanti alla macchina da presa”.
Juliette Binoche interviene in conferenza per precisare, anche nel suo caso, un lavoro compiuto più sulla rappresentazione della solitudine di Penelope che altro: “L’argomento è la solitudine abissale, il senso di abbandono che si prova quando si è lasciati indietro. Alla fine credo che mi sia servito solo ripercorrere nella mia vita le situazioni simili, di donna sola con i miei bambini. Ha reso più facile entrare in relazione con il personaggio di Penelope, che mi ha impressionata anche perché non avevo mai interpretato prima una regina. Credevo fosse complesso, ma si è rivelato più facile del previsto, grazie anche a Uberto e ai grandi attori con cui ho recitato, Ralph (Fiennes, ndr) e Ángela Molina.
“È sempre una questione di indagini interiore”, conclude Claudio Santamaria sull’argomento. “Nel nostro mestiere è inutile andare a scoprire come si vestivano a Itaca 3000 anni fa o come compivano le loro azioni. Nella ricerca interiore il mio personaggio (Eumeo, ndr) è un personaggio che vive l’abbandono. Mi sono chiesto perciò com’è sentirsi soli, abbandonati nella speranza della realizzazione di un sogno che ti ha promesso un re tanti anni fa – una terra, una donna e una famiglia – e attendere questo ritorno per 20 anni. Come diceva Stanislavskij, il mestiere di capire e ricordare è facile. Difficile è sentire e credere”.
The Return e il rapporto con il testo
Quanto serve la fedeltà al testo classico, soprattutto in un film? È lecito chiederselo e Uberto Pasolini ha un’idea molto precisa a riguardo. “C’è tantissimo Omero in The Return. Tutto ciò che è bello è di Omero”, scherza. Interessante è comunque il modo in cui il materiale letterario è stato utilizzato. “L’ordine dei fatti è stato a volte cambiato. Abbiamo fatto un’operazione aristotelica, condensando eventi in diversi piani temporali e certamente ci sono anche dialoghi ispirati a Omero, anche se io non sono un grecista, ho letto varie traduzioni”, precisa il regista.
Una grande fonte di ispirazione, tuttavia, è molto più recente: “Ho letto molte interviste di reduci del Vietnam sulla loro difficoltà di gestire la violenza perpetrata e soprattutto la loro difficoltà di tornare in famiglia. Ci sono anche dei libri di interviste alle mogli dei veterani del Vietnam che parlano delle difficoltà che hanno ad accettare di nuovo questi mariti distrutti dall’esperienza della guerra. Tutto questo è entrato nel film stesso, a volte anche nei dialoghi. Ci tengo perciò a dire che abbiamo fatto qualcosa che in spirito voleva essere omerico, ma non omerico come lo pensiamo nei libri di scuola, un inizio della letteratura europea occidentale lontano da noi, no. Un Omero che parla di cosa vuol dire essere umani, cosa vuol dire essere un figlio, un padre, un servitore, una madre, una moglie. È lì che siamo andati a rileggere il testo, focalizzandoci più sulle persone che su tutte quelle cose che più spesso ricordiamo dalle letture giovanili, i ciclopi, gli dèi o le sirene”.