THE IMAGE HUNTER, Giacomo Agnetti
THE IMAGE HUNTER, Giacomo Agnetti

Presentato al Festival Cinema e Ambiente di Avezzano, The Image Hunter è il documentario che porta l’artista romano Hitnes e il regista Giacomo Agnetti in viaggio attraverso gli Stati Uniti, per ripercorrere in tre mesi i luoghi del lavoro del naturalista, ornitologo e pittore John James Audubon, che diede vita al celebre volume illustrato The Birds of America (1827).

Come è cambiato l’aspetto dei posti visitati da Audubon agli inizi dell’800? Cosa rimane della presenza degli uccelli che meticolosamente fissava e disegnava nei suoi studi? La riflessione contenuta in The Image Hunter non si limita all’aspetto artistico ma mette in moto un’analisi del presente, soffermandosi sul concetto di estinzione, attualizzando la metodologia e la tecnica di Audubon, spostandosi dalla pagina alla strada. Qui si ritrova un legame con la natura e con il suo respiro, ora più che mai importante.

Dipingere la realtà è un’illusione

Hitnes

Il film diretto da Agnetti è la documentazione diaristica e visiva del progetto autofinanziato nato da Hitnes nel 2015: una vera e propria esplorazione che l’ha visto spostarsi in oltre venti città e realizzare quindici murales sparsi tra gli Stati del Sud.

Sulla base delle osservazioni di Audubon, la loro attenzione si posa sul cambiamento e sulle condizioni attuali degli animali da lui rappresentati. Due sguardi, quello dietro la macchina da presa e quello che studia la natura selvaggia per poi trasporla su mura cittadine di grandi dimensioni, si riversano nella visione, la quale porta lo spettatore non solo a sentirsi parte di un incanto (ancora in una certa misura) incontaminato, ma a considerare quanto la realtà di quelle specie, studiate a distanza di quasi duecento anni, si sia modificata.

Il risultato è il racconto di un viaggio idealmente scollegato dal tempo, eppure concentrato sul presente, in cui l’eredità di Audubon si trasforma nell’opera di Hitnes, acquistando una molteplicità di sensi nuovi, arrivando fino a chi può immergersi nei ritratti di arte urbana disseminati per le città, come simboli di un mondo naturale che non ha mai esaurito il suo fascino.

L’intervista al regista Giacomo Agnetti

Come sei entrato in contatto con l’arte di Hitnes?

Io e Hitnes ci conoscevamo già da prima e sapeva che avevo un certo modo di andare in montagna, di stare in tenda, e quando gli hanno proposto di realizzare questo progetto negli Stati Uniti, seguendo le tracce di John James Audubon, mi ha detto: “o vieni tu o qualcun altro finisce che lo ammazzo“, questo perché sapeva che sarebbe stato un viaggio da fare a stretto contatto, e io ho detto subito di sì.

In che modo hai lavorato con Hitnes per conciliare i vostri sguardi in un progetto unico e coeso?

C’è voluto un po’ perché all’inizio ci si studia, anche se ci si conosce. Nonostante fossimo già amici, c’era il bisogno di rinnovare un’intesa: c’è tutto un primo periodo in cui ci si annusa, si cerca di capire se uno vuol comparire, se non vuol comparire, e se vuole comparire in che chiave; Hitnes non voleva essere mostrato esplicitamente in volto, e quindi ho dovuto trovare continuamente dei punti di vista un po’ nascosti ma non troppo, si doveva comunque vedere il suo lavoro e lui al lavoro.

Quindi la maggior difficoltà è stata nel trovare la giusta distanza, ma una volta trovata quella abbiamo lavorato benissimo, senza neanche mai organizzarci, c’è solo voluto un po’ di tempo.

The image hunter è una sorta di road movie documentario dotato di grande ritmo, come sei riuscito ad ottenere un risultato così?

Premetto che non mi sono mai piaciuti i documentari troppo lunghi, con dei tempi troppo dilatati. Buona parte del ritmo è data dalle tappe stesse che facevamo, che non erano poche, e quindi cambiando città avevamo tantissimo buon materiale, e per condensarlo abbiamo utilizzato appunto i murales.

L’altra cosa è che negli Stati Uniti del Sud, forse più che in altri posti, a dominare è la musica, e quindi c’è una grande componente musicale nel film, che ho fatto io tra l’altro, ed è stata realizzata con gli strumenti che incontravo nelle case in cui ci ospitavano. Per entrambi queste musiche sono diventate importanti, e penso che siano in parte loro a dare il ritmo al documentario.

Quanto è importante per te oggi parlare di specie in via d’estinzione?

Ovviamente è importantissimo, però forse sarebbe importante cercare di capire il tipo di approccio che noi abbiamo ad un’altra specie. La cosa che mi ha incuriosito di più nel film, durante la lavorazione, è scoprire il modo che aveva Audubon di guardare alle specie animali, e il modo che aveva Hitnes; tutti e due consideravano gli animali osservati come singoli, non come una specie, e quindi quando ad esempio guardavano un airone era quell’airone, non era inglobato dentro alla categoria degli aironi.

Se avessimo questo genere di sensibilità, di attenzione rispetto a un’altra specie, credo che avremmo risolto la maggior parte dei nostri problemi.

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.