Katia e Maurice Krafft sono forse i vulcanologi più famosi della storia della disciplina. Formatisi in Francia a fine anni ‘60 quando la teoria della tettonica delle placche cominciava a prendere piede, hanno passato i due decenni successivi a documentare e divulgare l’attività di più di 150 vulcani in tutto il mondo. Dovunque un vulcano eruttasse, i Krafft erano i primi ad arrivare ed effettuare misurazioni e riprese, spesso rischiando di avvicinarsi troppo al cratere attivo. La stampa li ha soprannominati “i diavoli dei vulcani”, e loro si sono prestati volentieri a una celebrità mediatica che ha favorito la conoscenza di una materia altrimenti oscura.
L’eredità di Katia e Maurice Krafft
È difficile quantificare la potenza della vocazione autodistruttiva della coppia, specie perché entrambi (ma soprattutto Maurice) hanno cavalcato un certo sensazionalismo nelle interviste coi giornalisti. “Più l’eruzione è grande, più sono contento”; “Tutti credono che questo (mestiere) sia pericoloso: può essere, se si è imprudenti. Ma, per il resto, non è più pericoloso che andare a fare una passeggiata su una strada francese nel week-end”. O la spacconata definitiva nel 1991, il giorno prima di morire durante l’eruzione del monte Unzen in Giappone: “Questa è una delle colate piroclastiche più piccole che abbia visto in vita mia”.
Nonostante l’orgogliosa marginalità rispetto alla comunità scientifica, la (apparentemente) dissennata ricerca di situazioni al limite e l’ossessione per la documentazione sul campo, l’opera di divulgazione di Katia e Maurice ha contribuito a far avanzare la conoscenza dei fenomeni vulcanici e ha favorito la creazione di programmi locali di prevenzione delle calamità. Il loro archivio di oltre trecentomila foto e duecento ore di girato è ancora oggi una fonte preziosa di materiale. Nel 2022, a trentun anni dalla loro scomparsa, da quello stesso archivio sono nati due film che celebrano il lascito dei Krafft: Fire of Love di Sara Dosa e The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft di Werner Herzog.
Werner Herzog e i vulcani
The Fire Within è il terzo capitolo della persistente fascinazione di Herzog per i vulcani. Il primo, La Soufrière, è un mediometraggio del 1977 sulla prevista – ma mai verificatasi – eruzione del vulcano omonimo nell’arcipelago di Guadalupa. Il regista parte con due operatori per intervistare l’ultimo uomo rimasto sull’isola dopo la sua completa evacuazione. Lo scenario che si presenta davanti alla troupe è una classica distopia herzoghiana: animali affamati che vagano in branco, negozi saccheggiati, il porto industriale deserto che sembra uscito da un film di fantascienza. E poi c’è lui, il poverissimo contadino che si rifiuta di abbandonare l’isola: accoglie l’eventualità della morte imminente con fatalismo religioso e approfitta della cinepresa per un’esibizione canora estemporanea.
Quarant’anni dopo arriva Into the Inferno, un’indagine antropologica sul rapporto tra umani e vulcani in Asia, Africa e Europa, dove la presenza di fornaci di magma incandescente ha ridefinito paesaggio, vita quotidiana e concezione del mondo. Herzog documenta la mitologia dei villaggi indonesiani ai piedi del monte Sinabung; l’appropriazione da parte del regime nordcoreano dell’immaginario legato al monte Paektu; gli scavi archeologici a valle del vulcano etiope Erta Ale, nella regione degli Afar. Insieme a lui il vulcanologo Clive Oppenheimer, virtualmente l’opposto di Maurice Krafft: pacato, collaborativo, poco incline ai rischi inutili.
Civiltà e caos
Per The Fire Within il regista incrocia i suoi temi ricorrenti con un corpus di materiali audiovisivi preesistenti, alla ricerca di un racconto che solo parzialmente coincide con gli intenti di chi filmava. È un’operazione simile a quella per già fatta per Grizzly Man (2005): partendo dall’assunto che la natura è stata fatale sia per Timothy Treadwell che per i coniugi Krafft, Herzog ricostruisce un senso parallelo, spingendosi ai margini della loro visione ufficiale per affiancargli la propria. Ben riassunta in una sua frase tratta da un’intervista con Paul Cronin: ”Sono affascinato dall’idea che la nostra civiltà sia come un sottile strato di ghiaccio sopra un oceano profondo di caos e tenebre.”
In questo senso The Fire Within è molto diverso da Fire of Love, pur essendo usciti praticamente in contemporanea. Il film di Carmen Sosa asseconda il mito dei Krafft e lo rende accessibile a un pubblico che, nel giro di trent’anni, ha forse dimenticato la loro storia. Katia e Maurice sono due rockstar che invece di sfasciare chitarre sul palco si ustionano le gambe col fango ardente. Due amanti con una peculiare passione per i vulcani, la cui temerarietà leggendaria va tramandata in accordo con la loro autonarrazione.
The Fire Within è un requiem: non rifugge da occasionali momenti di comicità, né fa mistero della sua simpatia per la pulsione esplorativa della coppia; ma parte dal dato indiscutibile che l’ostinazione di Katia e Maurice li abbia portati alla morte. L’intento celebrativo, se ce n’è uno, si sposta velocemente verso la produzione audiovisiva dei due, che vengono considerati cineasti a tutti gli effetti. L’analisi di Herzog del materiale prodotto nei trent’anni di attività della coppia rintraccia una crescente consapevolezza del mezzo, una progressiva maturazione della visione che prescinde quasi totalmente dai pretesti scientifici che l’hanno originata.
In breve
The Fire Within è composto quasi interamente da materiale d’archivio prodotto dai coniugi Krafft, ma l’impronta autoriale di Werner Herzog è ben riconoscibile, e si manifesta attraverso alcuni temi ricorrenti: la natura e il suo potere distruttivo, la precarietà dell’esistenza e le conseguenze delle ossessioni umane.
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