Brady Corbet arriva al Lido con il suo nuovo film, The Brutalist, in Concorso nella selezione ufficiale dell’81ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Un’opera che supera le tre ore con un intervallo di 15 minuti nel mezzo (con tanto di timer), interamente realizzata in pellicola 70 mm, la vera rivelazione della Biennale di quest’anno. Sono varie le ragioni per cui ha conquistato il pubblico presente e non passerà inosservato alla sua uscita in sala: la dimensione umana a cui fa riferimento Corbet è spaventosa ed effimera e si comunica attraverso la materia, pellicola e cemento, abitando la Storia come il tassello di un collage fatto di vite e vicende umane a volte spaventose, altre leggere, altre ancora appassionate.
Come per il suo esordio, The Childhood of a Leader (2015, Premio Orizzonti alla miglior regia e il Leone del Futuro – Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis), il regista torna a raccontare la genesi e l’evoluzione di un pensiero, di un percorso individuale destinato a grandi gesta – o opere d’arte che sopravvivono alla memoria – ma corrotto dalla Storia e dal mondo, che remano in senso contrario alle aspettative, ai desideri. Le esperienze che determinano il futuro dell’uomo, sono le stesse che lo limitano.
E proprio la memoria si dispiega nel racconto dell’architetto brutalista László Tóth, emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947, dove ciò che aveva sognato fa i conti con uomini e donne al sicuro nelle loro paure, affascinati dalla diversità, e al tempo stesso terrorizzati dall’incapacità di controllarla, o arginarla dentro schemi di contenimento. E allora la vita di László diventa un’epopea corrotta da ossessioni e dipendenze, in cui la prospettiva di creare è inebriante quanto devastante. Ma non importa cosa accade nel mezzo, l’importante è il risultato finale.
PELLICOLA – La grana delle immagini
The Brutalist è un film che prima di amare i suoi personaggi, ama il cinema e le possibilità che esso concede, come la dilatazione del tempo, che diventa qui un componimento per immagini, o l’insofferenza e la delusione che si trasformano in coreografie danzate tra luci gialle e ombre scure.
Corbet progetta un grande racconto sul sogno americano, il suo László Tóth (Adrien Brody) è un uomo irrecuperabilmente danneggiato, ma anche un artista, una traccia della Storia che continua a parlare attraverso ciò che ha costruito.
L’affresco storico e umano delineato da Corbet mette in scena la seconda parte della vita dell’architetto ebreo di Budapest, diretto a Philadelphia da suo cugino, che ha un laboratorio di mobili di poco pregio e una moglie americana e cattolica. Qui László si imbatte nel primo pezzetto di realtà, ed è costretto ad andarsene e optare per lavori ancora più umili che costruire tavolini e mensole, per poi incontrare (dopo un primo ruvido contatto) il milionario americano Harry Lee Van Buren (Guy Pearce), che gli commissiona una struttura polifunzionale in onore della madre. Dopo una fascinazione nei confronti dell’architetto, Van Buren inizia a provare un’insofferenza dovuta al carattere di Tóth, alle sue manie, invidiandolo e detestandolo al tempo stesso.
Il regista non è interessato però al cliché di genio e sregolatezza, bensì all’analisi di un trauma e al suo effetto sull’uomo, e poi sull’artista. L’opera che porta in Concorso è ambiziosa e unica, estremamente tattile, raffinata, profonda.
Le immagini si comunicano anch’esse come ricercate forme figurative, dove l’imperfezione della grana diventa un grande valore aggiunto, che ne aumenta il coinvolgimento emotivo, provocando un tale sortilegio da far sì che quei 215 minuti passino senza peso.
CEMENTO – Nulla di superfluo
La concezione dell’arte brutalista, dura ed essenziale, si scontra con quella statunitense, pressoché nulla, abituata a venerare gli stili e gli artisti europei cimentandosi in una pratica di possessione più che ammirazione. Gli edifici realizzati da Tóth nella sua patria sopravvivono alla guerra, testimoniando una resistenza morale ma anche materiale, data dall’uso di materiali semplici e resistenti, come il cemento.
La progettazione è così una pratica mistica e ragionata, che accosta l’utilità e la resistenza alla spiritualità, e che poco convince il mecenate appassionato di architettura contemporanea Van Buren. Dopo aver aiutato László a tirarsi fuori dalla povertà e a far arrivare negli Stati Uniti anche la moglie (Felicity Jones) e la nipote, arriva a detestarne il talento, lo ripudia, cercando di sopraffarne la bravura con il potere del denaro, e non solo.
Dai titoli di testa all’epilogo di The Brutalist, il pensiero della corrente artistica è il leitmotiv della narrazione, che si compenetra alla magia visiva, riflettendo le due anime del protagonista, quella fedele al rigore della Bauhaus, e quella lesa dalla guerra e dalle persecuzioni razziali, nonché dalla fuga, traumatica più che salvifica.
Adrien Brody/László Tóth
Se The Brutalist vi conquisterà sarà soprattutto per merito del suo protagonista, Adrien Brody. L’attore si cimenta nuovamente in un ruolo drammatico, dopo aver scelto negli ultimi anni piccole parti comiche in una serie di film come The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (2021) e Asteroid City (2023) di Wes Anderson, o Omicidio nel West End di Tom George (2022).
Il suo László Tóth è assediato dai ricordi, imprigionato in una nostalgia che non riesce a scrollarsi di dosso, vittima di una vocazione che era possibile esprimere solo prima della guerra, e che dopo diventa una condanna, soprattutto per la sua sfera psicologica.
La storia che racconta, attraverso un ventaglio di emozioni strazianti, è quella di chi ha perso la propria casa, e non riesce a costruirne una che si adatti a ciò che conserva nei suoi ricordi. Non riesce a ritrovare dopo tanti anni di distanza il rapporto che aveva con sua moglie, e neanche la soddisfazione di creare qualcosa con le sue mani. Ricorrendo quel sogno di cambiamento, László perde se stesso.
Per noi ha già vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile di questa edizione.
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