Jeremy Strong e Sebastian Stan in The Apprentice - Alle origini di Trump. Courtesy of BiM Distribuzione
Jeremy Strong e Sebastian Stan in The Apprentice - Alle origini di Trump. Courtesy of BiM Distribuzione

Il valore maggiore di un film, a volte, è nelle reazioni che produce, così The Apprentice – Alle origini di Trump moltiplica la sua rilevanza e il suo spessore sociale proprio per l’accoglienza mista e tesa alla vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Presentato in concorso a Cannes 2024, si tratta di un altro notevole lavoro di Ali Abbasi (abbiamo parlato qui del suo Holy Spider, ma ha diretto anche alcuni episodi di The Last of Us), regista iraniano emigrato in Danimarca e ora attivo negli Stati Uniti.

Abbasi è un outsider, non è americano e nel suo Paese d’origine non sarebbe libero né come uomo né come artista. Questo è il primo elemento su cui concentrarsi quando si pensa al perché e a come abbia realizzato un film sul giovane Donald Trump.

C’è un esperienza personale impossibile da eliminare: il timore dell’individualismo capitalista statunitense unito all’aspra critica delle derive autocratiche del solo uomo al potere. In più – ed è la parte più attraente – c’è la visione ironica e pop di una New York anni Settanta e Ottanta molto diversa dal presente.

Cosa racconta The Apprentice – Alle origini di Trump

Non fa male ricordarlo: siamo nella New York di Travis Bickle, di Taxi Driver. Quella città in cui camminare a Hell’s Kitchen o davanti alla Penn Station di Manhattan non era affatto sicuro. Eppure il giovanissimo Donald Trump ha un’idea, una visione e un’ossessione per rivoluzionare l’intero quartiere, a partire da quello che poi diventerà l’hotel Grand Hyatt, solo il primo dei suoi ambiziosi progetti, tra cui la Trump Tower.

Figlio di un rigido immigrato tedesco, Donald (Sebastian Stan) era cresciuto nel Queens, cercando presto di nascondere le sue origini ed entrare nei grandi giri di Manhattan. Da qui l’incontro con Roy Cohn, interpretato da un incredibile Jeremy Strong. Già nel 1973 Trump gestiva gli affari di famiglia e l’affitto di oltre quattordicimila appartamenti tra Queens, Brooklyn e Staten Island, attività da cui nascono anche i suoi primi attriti con la comunità afroamericana e le diverse comunità marginalizzate, a cui la famiglia Trump chiedeva garanzie molto più alte che agli affittuari bianchi, come spiegato anche nel film.

Il protagonista di Ali Abbasi, dunque, è prima di tutto un uomo d’affari con poca, pochissima considerazione per le istituzioni, per il governo e per la politica, ritenuti tutti solo noiosi ostacoli ai suoi grandi piani. Geniale è qui allora il contrasto con ciò che il pubblico già sa, con il futuro da Presidente, ancora lontano. È un cortocircuito tra la natura imprenditoriale (e meschina) del business man e l’etica dello statista, del politico vero che Trump non è mai stato e non sarà mai. Con un po’ di azzeccato ma amaro umorismo, Abbasi mostra tutta la contraddizione del personaggio e della persona che racconta.

Al tempo stesso delinea il ritratto personale di un uomo spiacevole, bullo e insicuro. Conservatore e opportunista, crudele e ossessionato dalla sua immagine. Tre sono le scene che forse ne racchiudono l’essenza: la violenza sulla moglie Ivana, i trattamenti estetici invasivi e il finale in cui rinnega il suo mentore Roy Cohn. Tre scene che ne evidenziano la mostruosità rispettivamente morale, fisica ed etica.

Maria Bakalova e Sebastian Stan in The Apprentice. Courtesy of BiM Distribuzione
Maria Bakalova e Sebastian Stan in The Apprentice. Courtesy of BiM Distribuzione

Tre scene da ricordare di The Apprentice – Alle origini di Trump

Della scena dello stupro di Ivana Trump si è parlato fin dalla presentazione a Cannes. In parte è uno spoiler, in parte no, poiché è stata materia di diversi articoli, anni fa. In ogni caso preferiamo parlarne apertamente, come trigger warning. Non è una scena facile da guardare, anche perché qualcuno ricorderà sicuramente che nel 2015, in piena campagna elettorale, l’ex moglie di Donald Trump lo accusò pubblicamente di una violenza sessuale avvenuta nel 1989, che sebbene non ebbe alcun esito giudiziario resta comunque negli atti del loro divorzio, avvenuto nel 1992.

Interessante, dal punto di vista del film, è che Ali Abbasi abbia scelto di inserire la scena in The Apprentice per delineare il profilo di un protagonista violento nelle azioni quanto nei pensieri. Capace di fare del male alle persone a lui più vicine, solo per dimostrare di avere il potere e il controllo.

Le scene degli interventi estetici sono invece qualcosa a metà fra l’horror e il comico. Sono poco meno di una tortura chirurgica a cui Trump si sottopone volontariamente per l’ossessione di apparire giovane e attraente, ma che in realtà ottengono l’effetto opposto: una repulsione e un disgusto immediato. Un metodo – non troppo – sottile per suscitare emozioni e reazioni immediate nel pubblico. Chapeau di nuovo, Ali Abbasi.

Infine, la terza “evoluzione” mostruosa è proprio sul finale, ma per capirla è necessario tornare all’inizio, alla relazione centrale in tutto il film: quella tra Roy Cohn e Donald Trump.

Lo straordinario Roy Cohn di Jeremy Strong in The Apprentice

Roy Cohn era un avvocato, anzi l’avvocato di Manhattan, quello a cui si rivolgevano tutti i pezzi grossi, a volte anche la malavita. Dal 1973 fino al 1985 è stato il legale personale di Trump, prima di essere radiato per “condotta non etica” e morire un anno più tardi per le complicazioni dell’AIDS. Ai fini del racconto di The Apprentice – e della storia stessa di Donald Trump – è utile ricordare che Cohn fino all’ultimo negò tanto la sua omosessualità quanto la sua malattia.

Jeremy Strong e Sebastian Stan in The Apprentice - Alle origini di Trump. Courtesy of BiM Distribuzione
Jeremy Strong e Sebastian Stan in The Apprentice – Alle origini di Trump. Courtesy of BiM Distribuzione

Temeva di perdere prestigio e potere se identificato come uomo gay e non solo. Viveva secondo tre regole fondamentali, che poi sono le stesse che insegna e lascia in eredità a Trump.

La prima: “Attacca! Attacca! Attacca!”
La seconda: “Nega tutto, non ammettere nulla”.
La terza: “Dichiara sempre vittoria. La verità è solo quella che tu dici”.

Ecco, Trump ingloba e assorbe queste tre regole come ingloba e assorbe la personalità del suo mentore, lasciando che il suo ricordo si sgretoli e svanisca dietro di sé. Come un blob, il Trump di Sebastian Stan si appropria di ciò che gli serve, prendendo qualsiasi cosa dagli altri, senza ritegno, e va avanti credendo di essersi fatto da sé.

Vederlo così chiaramente su un grande schermo ha un effetto straniante, soprattutto perché Sebastian Stan memorizza e riproduce tutti i manierismi di Trump fino quasi a sparire dietro la maschera. A rubargli la scena, tuttavia, è spesso proprio Cohn, o meglio Jeremy Strong che riesce a dare corpo e spessore a una figura quasi dimenticata, ignorata, fino a farla diventare il vero burattinaio. La vera mente dietro la tragedia di un uomo ridicolo.

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