Spiegare la comicità con la matematica non è un tentativo scientifico di comprenderla, è un modo per suscitarla involontariamente (come Stanis e la sua formula A+B=C). Ma se la comicità latita nonostante molti soggetti col dovuto pedigree si affannino a lavorarci sopra, allora la matematica diventa un tentativo pietoso (seppur ozioso) di capire dove si è sbagliato. Il principio, di stolido buonsenso, è un proverbio inglese che non stonerebbe in bocca al nostro allenatore: too many cooks spoil the broth, troppi cuochi rovinano il brodo. Ed è proprio quello che è successo a Ted Lasso.
21 nomination agli Emmy Awards 2023
Nonostante la serie abbia collezionato una quantità crescente di recensioni negative stagione dopo stagione, la Television Academy non sembra essersi accorta del plot twist e ha continuato a candidarla a un diluvio di Emmy, passando dalle 20 nomination della prima e seconda stagione alle 21 della terza. Scorrendo le categorie si incontrano varie sfumature di inverosimiglianza: dalle non immeritate candidature a Brett Goldstein e Phil Dunster, alle leggermente meno smaglianti Juno Temple e Hannah Waddingham (che girlbossano come fosse il 2017), fino al traballante riconoscimento al protagonista Sudeikis e alla miglior serie comica.
Però il problema di Ted Lasso non è tanto la bontà delle performance attoriali, quanto la perdita di una direzione narrativa chiara in grado di far fruttare il portentoso traino della prima stagione. È innegabile che le nostre esigenze spettatoriali siano molto diverse da quelle del 2020. È anche innegabile che, tra le varie strade che la serie poteva prendere, si sia deciso di perseguire quella più zuccherina e meno divertente. La filosofia del no hugging, no learning può non essere adatta a una serie che nasce e resta motivazionale; ma dove va a finire l’umorismo se un bacino sulla fronte non lo neghiamo proprio a nessuno?
12 episodi, 650 minuti
Si è partiti dai (compatti) 29-33 minuti della prima stagione, passando per i (prolissi) 30-49 minuti della seconda stagione, per arrivare agli (elefantiaci) 43-78 minuti della terza stagione. La dilatazione della durata per episodio sembra coincidere con un progressivo disinteresse nei confronti delle sorti della squadra, che si rimodula in interesse specifico per le linee narrative dei singoli personaggi. Ne sentivamo il bisogno? No. Gli vogliamo più bene? No. Ci sentiamo più coinvolti? Sempre no. La svolta soapy di Ted Lasso non è spinosa abbastanza da riscuoterci dal torpore; considera assolta la sua funzione abbracciando un’inclusività di facciata, che sorvola su conflitto e complessità quanto basta per risultare posticcia.
L’effetto finale è di cappio attorno al collo di una comicità già in debito d’ossigeno, finita con due colpi di grazia presenti in ogni episodio. Il primo: tanti controcampi sulle facce degli astanti che reagiscono alla battuta del personaggio principale. È come il paradosso di Achille e la tartaruga: ogni scena potrebbe durare all’infinito, cercando invano di combattere l’horror vacui con l’accumulo irrilevante. Il secondo: il tributo di sangue marchettaro a mamma Apple. Che siano Mac o iPhone, la loro presenza è così insistita da renderli, di fatto, il filtro ineliminabile a metà delle interazioni tra i personaggi. E va bene che il silicio sta guadagnando dignità artistica, ma qui viene il sospetto che la storia del FC Richmond sia diventata un mero pretesto promozionale.
13 fra sceneggiatrici e sceneggiatori
Ciascuno dei creatori di Ted Lasso porta alla serie un contributo riconoscibile: Jason Sudeikis, il volto da commedia romantica, il bravo ragazzo senza doppio fondo; Bill Lawrence, il mago delle workplace comedy (Spin City, Scrubs, Shrinking); Brendan Hunt, l’esperto di calcio e di notti brave in Europa; Joe Kelly, compagno di lungo corso di Sudeikis e Hunt (Detroiters, Saturday Night Live). La prima stagione fila liscia con una scrittura coerente; i problemi arrivano già con la seconda, quando il numero di puntate aumenta – così pure la durata per episodio – e il quartetto cede il passo a otto sceneggiatori aggiunti (nove nella terza stagione).
Le caratterizzazioni dei personaggi e le scelte narrative diventano progressivamente più generiche, le situazioni comiche più forzate. Si arriva al punto da frenare l’azione perché l’unico tratto distintivo di Ted diventa l’accumulo (di nuovo) di dad jokes, giochi di parole, rime sciocchine. Cominciano ad essere invadenti i riferimenti metanarrativi alle romcom, di cui pare che la squadra al completo sia grande fan (?). A chi non si capacita di star guardando una serie che ha dato il suo meglio tre anni fa restano pochi appigli per frenare la caduta libera verso la noia. Tra questi il sempre ottimo – ma ormai marginale – apporto attoriale/autoriale di Brett Goldstein (non a caso co-creatore con Lawrence del già citato Shrinking).
Tirando le somme
Ted Lasso aveva una buona idea di base, demolita nel tentativo di estenderla oltre le sue capacità fisiologiche di sviluppo. Troppi riconoscimenti, durata eccessiva e scrittura disomogenea hanno trasformato la serie nell’asso pigliatutto che non voleva (e non poteva) essere. La terza stagione conferma e approfondisce quello che la seconda lasciava già presagire: resta poco da ridere, sotto o sopra i baffi.
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Foto di copertina: Cristo Fernández, Stephen Manas, David Elsendoorn, Kola Bokinni, Moe Hashim, Toheeb Jimoh, Phil Dunster, Billy Harris e Moe Jeudy-Lamour in Ted Lasso.