Taxi Driver
Taxi Driver, Martin Scorsese, 1976

Trenta sequenze, scandite e dettagliate in un precisissimo storyboard, sono i capitoli della discesa agli inferi di Travis Bickle (lo straordinario Robert De Niro), antieroe di Taxi Driver, nella mente dello sceneggiatore Paul Schrader prima ancora che in quella del grande regista Martin Scorsese.

È la metà degli anni Settanta. Hell’s Kitchen e Times Square sono ancora fra gli isolati peggiori e più pericolosi di Manhattan: luogo ideale per ambientare la storia. La guerra in Vietnam divide e ferisce ancora l’animo degli Stati Uniti: tempo ideale per raccontarne il tormento. Hollywood è attraversata dal vento dei movie brats, in ragazzacci del cinema, che come i giovani della Nouvelle Vague, provano Oltreoceano a rivoluzionare l’industria dell’intrattenimento.

Il poco più che trentenne Scorsese, al suo quinto lungometraggio, trova nel Travis Bickle di Schrader la perfetta incarnazione di un suo personaggio-emblema. Quello che, anni dopo, descriverà ai Cahiers du Cinéma come non un eroe senz’anima, ma un eroe che perde l’anima, proprio davanti ai nostri occhi.

Il Travis Bickle di Schrader viene da lontano, dai personaggi esistenzialisti europei. Da La nausea di Jean-Paul Sartre e Lo straniero di Albert Camus. Tuttavia non dimentica mai di essere americano, di non avere la stessa gravitas richiesta ai grandi intellettuali francesi. E infatti la sua violenza, quella furia omicida (e suicida, anche se fallimentare) si trasforma in spettacolo.

Che tipo di spettacolo è però Scorsese a deciderlo. Né farsa né entertainment, nelle intenzioni del regista il climax cruento di Taxi Driver è pura catarsi, tragedia. Chi ama il cinema di questo grande autore lo sa, la violenza in Scorsese possiede tutte e cinque le caratteristiche canoniche della sua rappresentazione: immediatezza, discontinuità, sproporzione allo scopo, estemporaneità e imprevedibilità. E se volete approfondire a riguardo, leggete Voglio vedere il sangue, di Leonardo Gandini. Tuttavia, la violenza in Scorsese non è mai fine a se stessa. È più che altro un tentativo di dimostrare fino a che punto può spingersi l’essere umano: un’indagine antropologica, mossa dalla curiosità, mai morbosa, e dalla formazione cattolica – l’ossessione della colpa – del regista italoamericano.

Come ha spesso dichiarato in diverse interviste, Scorsese era inorridito, per esempio, dall’euforia che la scena finale di Taxi Driver suscitava – e suscita ancora – nel pubblico. Desiderava che lo spaventasse, che lo inducesse a riflettere, ma al tempo stesso sapeva benissimo da dove nasceva quell’euforia: «Dal modo in cui è girata, e lo so perché l’ho girata io. E dal modo in cui è resa dal montaggio, dalla musica, dai movimenti dei personaggi».

Appunto, in che modo è girata? Ripercorriamola insieme. Se avete visto almeno una volta nella vita Taxi Driver, dovrebbe essere come minimo nella vostra top 3 delle migliori sequenze di tutti i tempi. Se non lo è, riguardatela.

La sequenza finale di Taxi Driver

Scorsese, che nel cinema è un “reazionario rivoluzionario”, un regista che usa tecniche classiche stravolgendole secondo la sua visione, in Taxi Driver sperimenta dall’inizio alla fine. Basti pensare alla particolare panoramica che segue Travis nel deposito dei taxi, diventando all’improvviso la soggettiva di un personaggio inesistente. O la lunghissima inquadratura della pillola effervescente che sembra non terminare mai, ma che Scorsese non volle tagliare nemmeno di un secondo, per costringere il pubblico a fissarla, e interrogarsi.

Nell’ultima sequenza, quella della vendetta di Travis contro tutti e nessuno, contro il mondo intero, prima di tutto bisogna ricordare che la produzione impose la desaturazione del colore, per evitare che il rosso del sangue fosse troppo acceso. Il risultato, così caldo (sui toni dell’ocra e del marrone) rispetto alla freddezza dei colori del resto del film, ha il risultato opposto a quello desiderato. Amplifica la furia cruenta di Travis.

Scorsese sceglie di girare in un vero palazzo, per cui tutto il tragitto attraverso l’ingresso e le scale è uno spazio talmente angusto e stretto da richiedere la camera a mano, senza altra attrezzatura. Il risultato è un movimento concitato, sporco, ancora più efficace. Travis spara e uccide senza sosta chiunque capiti a tiro. È accecato dal desiderio di ripulire il mondo dalla sporcizia degli uomini che lo insozzano con il denaro e con il sesso. E, crasi fra le due cose, con la prostituzione. Motivo per cui diviene ossessionato dalla giovanissima prostituta Iris (Jodie Foster).

Ogni uccisione è un crescendo. Più sangue, più violenza, più rapidità. Un ultimo sparo sparge una macchia rossa di ossa e cervello su un muro. E tutto si ferma. Non rimane più nemmeno un colpo in canna a Travis per spararsi in gola, allora con le dita insanguinate finge tre colpi alla tempia. Un’immagine iconica, uno sguardo in macchina indimenticabile, seguito da uno dei movimenti di macchina più belli di sempre. Un carrello a ritroso, che parte perpendicolare dal soffitto (Scorsese inventa l’inquadratura facendo sventrare il soffitto per posizionare i binari della macchina) e riattraversa tutti gli spazi percorsi da Travis nel palazzo, tutti i corpi lasciati inermi, fino a tornare fuori. Sempre più lontano dalla violenza enorme che si è consumata in quel piccolo spazio.

Taxi Driver per questo e altri mille motivi nel 1976 vinse la Palma d’oro a Cannes. Pochi mesi dopo perse l’Oscar al Miglior film contro Rocky. E forse questa è la beffa più grande mai fatta da Hollywood a un grande Maestro.

Su Scorsese, leggi anche: Martin Scorsese | Metodo e ossessioni di un grande regista e Raging Bull – Toro Scatenato. La rinascita di Martin Scorsese

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