Senza esitazioni o inutili timori reverenziali, il finale di Stranger Things 4 è cinema, possiamo dirlo. È cinema nella struttura, nella scrittura, nel modo in cui è stato pensato ed è stato fruito dal pubblico: circa quattro ore che fanno traballare il concetto di serialità televisiva, distruggendola e reinventandola. L’ottavo episodio (Papa) e il nono (The Piggyback), sono consapevolmente separati dal Volume 1 non soltanto per l’ovvio hype che si è creato in un mese di distanza, ma perché nella loro essenza sono qualcosa di diverso. E i Fratelli Duffer lo sanno bene.
La quarta stagione si chiude in modo epico, nel senso letterale del termine. Ricerca la grandezza, in ogni aspetto, anche se non tutto funziona alla perfezione.
Cosa abbiamo amato del season finale
Partiamo dai pro, per digerire poi meglio cosa è andato storto. Gli ultimi due episodi racchiudono l’essenza di una stagione che vuole dimostrare il raggiungimento di una piena maturità, sia da parte dei creatori sia da parte dei giovani interpreti. Come avevamo accennato riguardo al Volume 1, i riferimenti culturali non sono più soltanto ai Goonies, ET o Stand By Me, ma anche al vero cinema horror anni Ottanta (basti pensare a Freddy Krueger). Contemporaneamente – e questo è forse l’aspetto più entusiasmante – alcuni momenti iconici della serie stessa vengono ripresi, a distanza di anni, con straordinaria coerenza narrativa interna: da dettagli quasi invisibili, come i dieci centimetri della porta, sempre aperta, fino a elementi psicologici essenziali, come il trauma dei Democani per Joyce o la sensibilità particolare di Jonathan nei confronti di Will.
Proprio Will è protagonista di una delle scene più intense di questo finale. Una sottile eppure inequivocabile dichiarazione d’amore che riporta alla memoria il primissimo episodio, quando già la serie ci aveva rivelato un aspetto essenziale di questo personaggio, senza che poi ne tenessimo troppo conto. Se proprio non ricordate di che si tratta, andate circa al minuto 17 dell’1×01!
Ed è in questa sequenza, tra le tante, che si nota anche quanto sia evoluta in modo naturale la recitazione del gruppo: lo sguardo di Charlie Heaton (Jonathan Byers) vale tutto, senza dire niente. E c’è chi parla già di Emmy e SAG Awards, con ragione, in effetti, perché la recitazione (e la direzione degli attori) di questa quarta stagione è straordinaria, dall’indimenticabile Sadie Sink (Max Mayfield) all’inquietantissimo Jamie Campbell Bower (Vecna), che anche coperto totalmente dal trucco prostetico lascia senza parole.
Le sequenze indimenticabili – SPOILER ALERT
Si è detto però finale epico e sono due e soltanto due le scene che meritano davvero questa definizione: la fuga dal NINA Project (4×08) e il rock di Eddie (4×09).
Quando nel mezzo del deserto rosso si vede arrivare una carovana di mezzi militari e un elicottero già si può pregustare una complicatissima scena di azione, caos, lotta, morte ed esplosioni. Non c’è una regola scritta, è solo una sensazione che nasce dall’immaginario comune, quello che i film tramandano e su cui ci basiamo, spesso senza rendercene conto. Nel momento in cui El (Millie Bobby Brown) riprende il controllo totale dei suoi poteri, sprigionando un urlo e una potenza disarmanti, torna quel brivido di eccitazione che fino a questo momento nella quarta stagione era mancato.
Un altro tipo di brivido e di stupore è quello di Master of Puppets (Metallica) che risuona nell’upside down dalle corde della chitarra di Eddie (Joseph Quinn). È il coronamento di un personaggio perfetto, che aspettava questo momento dal primo episodio, come un ricongiungimento erotico con il suo strumento, a cui aveva detto addio nel primo episodio della stagione. Eddie è una rivelazione così grande e affascinante della serie da meritare un approfondimento a parte (stay tuned, arriverà!) ma è anche uno degli elementi più problematici della scrittura dei Fratelli Duffer. Vediamo perché.
Cosa non convince fino in fondo – SPOILER ALERT
Volendo riassumere il grande problema di questa quarta stagione, si potrebbe racchiudere in una certa furberia nell’evitare situazioni scomode o troppo complesse. È un problema che si declina in diversi modi ma che alla radice torna sempre a una certa mancanza di coraggio nella scrittura.
Succede con la morte di Eddie, che pur se prevedibile dall’inizio sembra comunque un sacrificio inutile all’altare di altri personaggi storici che hanno perso il loro potenziale nella serie. E sì, la frecciatina è per Mike, che al di là di un’imbarazzante scena di incoraggiamento a El, risulta meno utile persino di Argyle. Succede inoltre con la già citata scena della dichiarazione di Will a Mike, in cui aprire la parentesi dell’omosessualità negli anni Ottanta è così complicato da convincere gli autori a sfiorare la questione in superficie, mostrando soltanto il dolore inconsolabile e inesprimibile di Will. E succede infine con altre questioni prettamente sociali come il controllo delle armi e il razzismo. Non basta un’arguta battuta di Eddie (intrepretato tra le altre cose da un attore britannico!) sul secondo emendamento o peggio una “classica” scena in cui il ragazzo bianco arrogante di turno punta una pistola contro il ragazzo nero (Jason contro Lucas). Sono scelte di comodo, fatte per alzare polvere su un argomento senza poi afferrarlo veramente. Scelte intelligenti, molto intelligenti, ma non per questo meno fastidiose.
Come fastidiosa è quella, più di ogni altra, la scelta compiuta sul finale, in cui sono tante, troppe, le cose che si sarebbero potute fare diversamente. Cos’è infatti un gap di due giorni se non la chiara dichiarazione di un vicolo cieco?
Un buco nero in cui è impossibile capire come Joyce e Hopper abbiano lasciato l’URSS. O come Lucas si sia salvato da una situazione potenzialmente pericolosa, essendo l’unica persona incolume accanto ai corpi martoriati di Max e Jason. O in cui il ricordo di Eddie sembra essere sparito nel Sottosopra insieme al suo cadavere. Come se tutto questo non bastasse, il finale si conclude con il solito brivido sulla pelle Will, quel richiamo dal Sottosopra che persiste dal finale della prima stagione ma che non è mai stato approfondito in maniera adeguata. La quinta stagione sarà la volta buona? Perché è un peccato vedere questo personaggio scivolare sempre di più verso lo sfondo, con il potenziale che ha!
Per ora si sa soltanto che il casting della quinta stagione è già iniziato e che i nuovi episodi saranno ambientati nel 1988, due anni dopo gli eventi della quarta. Un’altra (grande) ellissi temporale, che si spera verrà gestita meglio, anche se considerando l’ultima scena di questa quarta stagione, quel finale aperto in cui chiaramente sta per succedere qualcosa che non vedremo, sarà molto difficile ricollegare tutto.
La fiducia nei Fratelli Duffer rimane comunque altissima e Stranger Things già ci manca al punto da iniziare l’ennesimo rewatch.
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