Soul è il 23° lungometraggio Pixar in 25 anni di storia della casa di produzione. È forse il primo indirizzato a un pubblico per lo più adulto, nella continua evoluzione tecnica e tematica degli Studios. Non è un film apprezzato univocamente, tuttavia. Anche nella nostra redazione ha suscitato diverse reazioni. Ne raccogliamo infatti due contrapposte per la rubrica Campo/controcampo.
I pro di Soul – a cura di Giulia Losi
Soul è la nuova, piccola perla targata Disney Pixar. La grandezza di questo film sta nel riuscire a trattare una tematica complessa come quella della morte dandole una leggerezza e una poesia uniche. E lo fa lasciando un messaggio di fondo in realtà molto pessimista: quando le anime giungono alla fine, ad aspettarle c’è solo una lunga scala, verso una grande luce. Giunte lì, si dissolvono nel nulla, facendo un rumore anche piuttosto inquietante, che ricorda quello degli insetti che rimangono fulminati a contatto con una lampada.
Ora, nonostante la scena possa anche suscitare ilarità per il suono grottesco e stonato in un contesto così etereo, il messaggio è chiaro e spaventoso: dopo la morte non c’è assolutamente nulla. Un concetto simile non era mai stato trattato in un film Pixar prima d’ora. Anche un capolavoro come Coco trattava sì la tematica della morte, ma in un modo consolatorio, suggerendo che la fine ultima è perlomeno momentaneamente rimandata. I defunti, infatti, giungono in un mondo bellissimo e colorato, dove in qualche modo possono rimanere in contatto con i propri cari. Solo quando non rimane più nessuno sulla Terra che si ricordi di lei, l’anima si dissolve nel nulla. E questa morte definitiva, in Coco, viene suggerita un po’ in sordina.
In Soul l’idea che la morte sia definitiva è predominante. È per questo che il protagonista deve fuggire ad ogni costo. Perché sente che ha ancora una missione da compiere. Egoisticamente, credeva che il suo compito sulla Terra fosse quello di suonare a un concerto jazz che avrebbe cambiato la sua esistenza. Non poteva immaginare che invece il suo destino si sarebbe intrecciato a quello di una piccola anima, Ventidue, che sosta in un limbo dalla notte dei tempi, in attesa che si accenda in lei la fantomatica scintilla che la renda pronta ad affrontare la vita.
Soul è una gioia per gli occhi
Visivamente Soul è veramente un’esperienza. New York appare splendida e anche noi spettatori la osserviamo con gli occhi meravigliati di Ventidue. D’altronde, in quanti film abbiamo visto New York? Tantissimi, è vero. Ma in Soul sembra che la osserviamo per la prima volta. E, proprio come la piccola anima, ci sorprendiamo a guardare una foglia che cade, o i mille colori dei cartelloni pubblicitari e delle insegne dei negozi. La città assume improvvisamente delle tinte fiabesche e ci appare più accogliente, come se fosse una vecchia amica che ci aspetta a braccia aperte.
Il mondo delle anime, invece, sembra a prima vista quasi incolore a confronto, anche se non è così: persino le entità che lo gestiscono, i Jerry, richiamano molto da vicino i dipinti di Picasso. Sono esseri bidimensionali, quasi fatti da una sola linea, che si muovono fluidi e ipnotici. Tutto nel mondo delle anime risulta accogliente e affascinante e quasi capiamo Ventidue che non se ne vuole staccare. Se non fosse che la vita è molto, molto più bella e interessante.
Soul è un film molto coraggioso
Soul non solo introduce nell’universo Pixar l’idea di una morte definitiva, ma fa passare un altro, fondamentale concetto: il senso della vita è semplicemente viverla. Ventidue non fa altro che dimostrare al nostro protagonista è che la vita è un dono e come tale va apprezzato, ogni secondo e in ogni sfaccettatura. Ciò che conta non è la fama, non sono i soldi o il successo. Neanche un obiettivo apparentemente nobile come quello di perseguire la propria passione è sufficiente. No, ciò che conta è vivere appieno. Ed è proprio quello che Ventidue fa non appena ha l’occasione di scendere sulla Terra, anche se per puro caso. Ha passato millenni osservando tutto dall’alto, terrorizzata all’idea di scendere nel mondo. Ma nel momento in cui ha l’occasione di stare nel mondo, anche se nella vita di un altro, non può più farne a meno.
Il senso della vita può trovarsi in un raggio di sole che brilla fra le fronde degli alberi, nella luce che rimbalza specchiandosi sui vetri dei grattacieli, nella musica suonata da un artista di strada. È questo ciò su cui Soul invita a riflettere. Come viene detto al protagonista: un pesce può passare tutta una vita a sognare di essere nell’oceano, senza rendersi conto che vi è già dentro ed è solo acqua. Un grande sogno che si coltiva da anni, davanti all’immensità e alla bellezza della vita, può addirittura perdere di significato. Perché se ci si dimentica di vivere per inseguire quel sogno, nel momento in cui lo si stringe fra le mani si dissolve in una nuvola di polvere.
I contro di Soul – a cura di Valeria Verbaro
No, non è una stroncatura del film, ma solo un’amara constatazione di altissime aspettative non soddisfatte. Soul è l’opera su cui Pete Docter ha lavorato per cinque anni, già subito dopo l’uscita del suo Inside Out. Solo che nel frattempo la Pixar ha raggiunto una vetta ancora ineguagliata grazie a Coco (Lee Unkrich, 2017), riuscendo così a far sembrare Soul “un passo indietro”, per diverse ragioni.
Si è parlato molto della profondità e della complessità dei temi affrontati in Soul. La vita, la morte, la vita oltre la morte. Aspetti del pensiero umano che non sono soltanto di difficile comprensione per un bambino, non sono nemmeno universali per l’umanità intera. E questo è il primo, fondamentale, “difetto”.
La Pixar nel tempo si è ritagliata una nicchia molto precisa nell’immaginario comune. I suoi film, costruiti su un livello doppio di comprensione, per un pubblico di tutte le età, toccano corde emotive di facile immedesimazione. In poche parole, ci fanno piangere tutte le lacrime in corpo, perché individuano esperienze e bisogni emotivi che, nonostante le differenze individuali e culturali, accomunano gran parte dell’umanità. Soul no. Non è necessariamente un male, ma è un dato di fatto. Presuppone, in questo caso, una universalità impossibile da determinare.
Sono troppe le condizioni su cui si basa l’identificazione con i personaggi, a partire dal concetto di anima. Il film fa di tutto per creare un aldilà più neutro possibile, scevro da qualsiasi credenza religiosa, ma comunque è di questo che parla. Sarebbe ipocrita pensare che una diversa visione della vita e della morte, nel pubblico, non ne influenzi l’interpretazione.
Ammettiamo, comunque, che tutto questo non sia un problema e che il patto con lo spettatore si stipuli senza intoppi, rimane ugualmente un altro grande problema: la chiara individuazione del protagonista. Sinceramente non c’è alcun motivo di pensare che sia Joe Gardner (Jamie Foxx), a parte le sequenze iniziali del film. Gran parte della scena è divorata dalla piccola Ventidue (Tina Fey).
Joe vs Ventidue – Possibili spoiler!
Soul doveva essere il primo film Pixar con un black lead (protagonista afroamericano) e al di là del mostruoso ritardo di questa scelta, non sembra un esperimento riuscito, in fin dei conti. Dov’è il soul in Soul? Chi è davvero Joe? Dov’è la sua vita quotidiana? Dov’è la credibilità dell’esperienza afroamericana? Sì, si parla di jazz e c’è una scena carina in un barber shop, ma non è sufficiente. Il film sembra piuttosto procedere in punta di piedi, come se non avesse idea di come raccontare il mondo di Joe. La soluzione, in questi casi, dovrebbe essere ovvia: assumere un team creativo che faccia parte della cultura che si vuole rappresentare.
E un tentativo c’è stato, anche se molto debole. Il brillante drammaturgo e sceneggiatore Kemp Powers (One Night in Miami) è stato scelto come co-regista. Peccato che nel momento in cui è entrato nel progetto, Soul fosse già alle battute finali, dopo anni di lavoro.
Al contrario, da questo punto di vista Coco, parlando della vita dopo la morte nella cultura messicana, aveva decisamente alzato il livello delle politiche della rappresentazione nella Pixar. Dov’è finito tutto quel lavoro? Perché in Soul purtroppo non c’è.
Se però accettiamo che Joe non sia il protagonista (così come era previsto nella primissima versione della sceneggiatura), Soul ha tutto un altro fascino. Diventa la storia della piccola Ventidue, che ha visto il mondo dall’alba dei tempi e non ha mai voluto viverlo. Almeno fino all’incontro con Joe. Ventidue è un personaggio di gran lunga più interessante. Ha più cose da scoprire e interiorizzare rispetto a Joe. Paradossalmente ha anche più carattere, pur non essendosi mai incarnata e quindi “esistita”.
O forse è solo che Joe è un personaggio deprimente, inquadrato, sistematico, che non ci si aspetta tanto come eroe Pixar, o come incarnazione del jazz e della sua vitale improvvisazione. E in effetti chi è che improvvisa sempre? Ventidue, quell’adorabile pallina fluorescente che può ancora essere chiunque voglia essere.
Infine è da notare che la vera libertà di azione non è data al black man (Joe/Jamie Foxx) ma alla white woman (Ventidue/Tina Fey), ma questo è un altro discorso. E si può cogliere solo nella versione originale del doppiaggio.
Joe quindi non può veramente scegliere, non ha il controllo quindi non ha agency. Ha già avuto un corpo, una personalità e un passato: anni passati ad aspettare una grande occasione. Forse è qui che il film dovrebbe arrivare a far piangere i lacrimoni, quando lo spettatore si allinea con quello stesso desiderio di una seconda possibilità. Ma proprio quando dovrebbe dare il grande colpo, Soul si ricorda di essere un film per bambini e rifila al pubblico un’ovvietà: ogni giorno è una nuova occasione.
Va benissimo, è un messaggio stupendo, ma davvero finisce così, dopo aver scavato nella filosofia umana più profonda alla ricerca del senso della vita? Crolla tutto come un castello di carte.
E voi, con chi siete d’accordo?
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