Dopo aver partecipato al Sundance nel 2018 Sorry to Bother You è sparito dai radar, ma arriva finalmente in Italia grazie a Netflix. Tenetevi forte, perché è un film davvero folle!
La trama
A Oakland, in un presente distopico, Cassius Cash Green (Lakeith Stanfield) vive perennemente al verde insieme alla compagna e artista Detroit (Tessa Thompson). Dopo aver trovato impiego presso una società di promozione telefonica, trova il modo di scalare la vetta dell’azienda per poi accorgersi di essere coinvolto in affari loschi e disumani. Tentato dal denaro, accetta egoisticamente la situazione fino a quando si accorge dell’assurdità, letterale e non solo etica, delle conseguenze del suo lavoro.
L’idea e il contesto
L’idea e la sceneggiatura di Sorry to Bother You risalgono al 2012 e sono complementari all’omonimo album dei The Coup, di cui Riley è anche frontman. Lo spirito che anima il debutto cinematografico del rapper è quindi lo stesso della sua musica: sociale, politico, dichiaratamente socialista e rivoluzionario. Pur essendo stato realizzato sei anni dopo, non fa riferimento alla sua contemporaneità, ossia all’amministrazione Trump. Si focalizza invece sulla critica del sistema economico neocapitalista degli Stati Uniti. Dal 2012 al 2018 un fattore di diversità determinante è però il mutamento della sensibilità del pubblico e quindi il maggiore interesse a produrre un’opera del genere. In particolare, non sarebbe stata possibile prima del successo di Scappa – Get Out.
I temi
In primo luogo, la critica all’assetto capitalista della società è costruita attraverso un protagonista, Cassius Green, suo malgrado fagocitato dal ciclo continuo e alienante della produttività e del guadagno. Il denaro diventa la sua ossessione, o meglio il suo unico metro di giudizio e di valutazione della realtà. Per denaro Green è disposto a voltare le spalle ai colleghi in sciopero, a perdere la stima della compagna e persino ad accettare un compromesso disumano, vendendo di fatto lavoro schiavile.
L’altro grande riferimento alla contemporaneità statunitense, infatti, è costituito dalla centralità dell’azienda WorryFree, gestita da Steve Lift, un perfetto Armie Hammer che incarna lo stereotipo yuppie del bianco repubblicano. Nel film, la WorryFree è una sorta di comune in cui soprattutto persone poco abbienti si rifugiano per avere vitto e alloggio garantito, in cambio del proprio lavoro non retribuito.
Attraverso la costruzione visiva di questa realtà, in cui tutti indossano la stessa divisa e vivono in piccole celle con letti a castello, è chiaro che Riley fa riferimento al sistema carcerario statunitense e, di conseguenza, all’incarcerazione di massa e allo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti. Ciò che riguarda direttamente il discorso sulle politiche della rappresentazione, tuttavia, è il fatto che l’intero film, e con esso la sua posizione dissidente, sia costruito dal punto di vista afroamericano, che porta con sé anche la caratterizzazione del soggetto afroamericano in un mondo capitalista dominato dal pensiero bianco.
Questo aspetto è sottolineato anche dai uno dei primi elementi di sorpresa del film: la gag della white voice.
La white voice e la critica al razzismo sottile – Da qui SPOILER ALERT!
Per white voice si intende il code-switching a cui sono spesso costretti gli appartenenti a gruppi sociali marginali per inserirsi in ambienti tradizionalmente bianchi, per lo più lavorativi. Il code-switching è appunto la trasformazione del proprio codice linguistico, attraverso l’adozione di un codice più adatto al contesto. Nel caso degli afroamericani consiste nell’adozione di una pronuncia più controllata e nella rinuncia a determinati slang o espressioni jive: in altri termini quella che nel film è definita come “la voce che un nero fa quando viene fermato dalla polizia e non vuole creare problemi”.
In realtà, quindi, più che una rimodulazione linguistica, si tratta di una mutilazione identitaria dettata dai pregiudizi della visione bianca. Basterebbe questa battuta del film per capire lo spirito fortemente critico di Riley, ma il regista si spinge oltre trasformando quella che ormai è diventata una pratica comune in una surreale peculiarità stilistica, ossia il doppiaggio evidente e spesso fuori sincrono da parte di attori bianchi.
La chiara parodia sottolinea la relazione direttamente proporzionale fra l’omologazione alla visione bianca e il successo del soggetto afroamericano, non senza sferzare un duro colpo all’ipocrisia che la determina. A un livello più implicito e sottinteso per tutta la durata del film, inoltre, c’è una significativa riflessione sull’appropriazione del corpo, del mito e della cultura afroamericana da parte del soggetto bianco. Sicuramente è nella seconda metà del film che questo tema emerge con forza, nelle dinamiche relazionali fra Green e Lift e poi nell’introduzione del metaforico Equisapiens.
Gli Equisapiens e l’appropriazione del corpo
I mostri creati da Lift, attraverso l’effetto di una polvere simile a cocaina, non sono altro che proiezioni della perversione bianca sul corpo dei neri. Si tratta, infatti, di bestie umanoidi obbedienti e servili, dotate di una forza impareggiabile e sfruttate per i lavori più pesanti e più degradanti. I loro corpi muscolosi e scolpiti, sono al contempo deformati da sembianze equine, ironicamente anche nella dimensione degli organi sessuali. Anche in questo caso la voce è un elemento fondamentale perché, dal modo in cui gli Equisapiens parlano, è possibile riconoscere un’appartenenza culturale: sono tutti afroamericani e, fra essi, si distingue persino la voce prestata da Forest Whitaker. Secondo il piano di Lift, Cassius dovrebbe diventare il loro falso leader rivoluzionario, in realtà colluso con il sistema corrotto.
L’oggettificazione e il white gaze
C’è una sequenza del film, in particolare, che merita un’apposita analisi riguardo l’appropriazione del corpo. Durante la festa organizzato da Lift/Hammer, il padrone di casa si ritrova circondato da una platea adorante e prevalentemente femminile, mentre racconta un’impresa di caccia contro un rinoceronte, di cui conserva gelosamente il trofeo. Quando Cassius entra nella stanza viene invitato a unirsi alla discussione, posizionandosi di fronte a quella stessa platea, esattamente sotto la testa del rinoceronte.
In quel momento anche lui diventa un trofeo di Lift, anticipando allo spettatore il suo destino e la sua condizione di oggetto dello sguardo e del desiderio di annientamento altrui. Il regista si scaglia contro la mentalità dominante e oppressiva del padrone e lo fa senza scusanti, ridicolizzando tutto il contesto in cui avviene la sequenza, costruita in modo da suggerire allo spettatore l’esposizione del soggetto afroamericano allo sguardo, al potere e al desiderio del soggetto bianco.
Cash prende il posto del rinoceronte: da solo, messo di fronte alla propria condizione di estraneità e differenza rispetto a tutti gli altri diventa il trofeo della festa e della serata. E a questa sequenza metaforica e allusiva segue poi quella sfacciatamente ironica del rap.
In breve
È un attacco durissimo dunque, quello di Boots Riley, alla falsa rappresentazione del soggetto afroamericano e all’appropriazione culturale che spesso si verifica in casi simili, ma soprattutto alla superficialità e all’inconsapevolezza dello sguardo bianco che persiste tutt’oggi negli Stati Uniti.
Continua a seguire FRAMED per rimanere aggiornato sulle uscite in sala e sulle piattaforme streaming. Puoi seguirci anche su Instagram, Facebook e Telegram.