Attualmente in sala con Un Mondo a Parte e candidato per il miglior documentario con Io, noi e Gaber ai David di Donatello 2024, Riccardo Milani si avvale per i suoi racconti di una comunicazione gentile che arriva diretta al pubblico, suscitando un’importante attenzione nei confronti di tematiche che diventano un’urgenza narrativa.
Lo dimostra il successo del suo ultimo lungometraggio, appunto Un Mondo a Parte, alla quarta settimana dall’uscita in sala, che ha superato i sei milioni di euro al botteghino.
Alla sua quinta collaborazione con Antonio Albanese, il regista torna al cinema per mostrare la realtà di un comune di pochi abitanti, come molti altri in Italia, in cui una scuola composta da un’unica pluriclasse rischia di chiudere per mancanza di iscrizioni. Vittima ulteriore di complesse dinamiche territoriali. A combattere per non scomparire sono gli insegnanti, protagonisti indiscussi e ancora di salvezza, anche e soprattutto fuori dallo schermo.
L’intervista a Riccardo Milani
Mentre la promozione di Un Mondo a Parte continua, dopo aver dedicato quattro giorni di anteprime in 12 istituti scolastici di 7 comuni di Lazio e Marche, Milani porta il film nelle grandi sale, ma anche in quelle più piccole, incastonate in centri storici in cui il cinema è il più significativo punto di ritrovo, come quella di Castiglione in Teverina, nel Lazio, dove l’abbiamo incontrato.
Presentare Un Mondo a Parte anche nei cinema più piccoli è una scelta che abbraccia la tematica del film?
Mi piace tantissimo andare nei piccoli cinema. Sono realtà che mi sembrano aderenti al film in qualche modo, però in ogni caso una sala piccola è sempre meritevole di attenzione. E spesso non è facile tenere in piedi dei cinema così in questi luoghi, che sono a loro volta mondi a parte.
Nel film rifletti sul ruolo degli insegnanti: come nasce questo interesse e come si sviluppa l’idea del film?
Cerco di fare film che dietro abbiano una motivazione forte, mia personale, legata al Paese e a quello che vedo, a quelle che sono le trasformazioni, o i conflitti. I miei film nascono da questo. C’è sempre un’urgenza narrativa quando si lavora su queste storie.
Le persone che hanno partecipato e che racconto nel film le conosco da tantissimo tempo, sono decenni che vado in quelle zone, sono un po’ cresciuto là, quei bambini li ho visti tutti quanti nascere. C’è come un legame formativo, e non potrebbe essere altrimenti perché un certo modo di prendere la vita credo di averlo inevitabilmente assorbito da lì. Quando poi le questioni relative ai numeri delle scuole si sono fatte più dure, più esasperate, e a un certo punto la chiusura della scuola è diventata una realtà a Opi (piccolo paese nel cuore del parco nazionale d’Abruzzo, nel film rinominato Rupe, N.D.R), affrontare il futuro tragico di questi paesi, che ho visto negli anni chiudere un po’ tutti dopo la scuola, è diventato inevitabile.
Vedere una scuola chiusa è brutto, ti fa veramente male. Quello che accade da sempre per non far chiudere le scuole, già dagli anni ’90, è andare casa per casa per cercare bambini da iscrivere. Ma non solo, ci si inventano bambini con le disabilità, ci si inventa anche l’insegnante di sostegno, ci si inventa di tutto per farla stare in piedi.
È questo che ha fatto scattare in me il motivo per raccontare un’Italia che sta sparendo: perché conserva invece alcuni valori della nostra identità molto forti, compreso il senso della comunità. Il senso della comunità adesso è un tema feroce. C’è un’urgenza, una certa emergenza. Chiaro, non stabilisco io le emergenze del Paese, però non posso non dire che la comunità in questo momento viva un tempo decadente.
Com’è stata l’esperienza di lavorare con attori non professionisti?
Hanno partecipato a una storia a cui man mano hanno capito che avrebbero dovuto aderire perché era la loro storia, il loro territorio, la loro identità, e quindi hanno raccontato se stessi. Identità è una parola che usiamo molto poco, e l’identità di quei paesi non si è sbriciolata con l’arrivo degli stranieri, anzi, è rimasta ancora più forte.
Un Mondo a Parte è un film che arriva veramente a tutti, come lo spieghi?
Nelle tantissime presentazioni a cui ho partecipato, ormai dall’inizio di marzo, anche dopo la proiezione del film, incontrando il pubblico ho percepito una sorta di gratitudine per aver raccontato un’Italia che spesso è marginale, nonché un aspetto di questo Paese che quasi volutamente viene tenuto nascosto, e di cui non conosciamo l’entità, anche numerica, che è impressionante. Parliamo di migliaia e migliaia di piccoli centri. Penso che il gradimento del film sia dovuto a questo, o almeno arriva a molti per questo motivo, spero sia così.
Io, noi e Gaber: un documentario che emoziona come una riunione tra vecchi amici, che tipo di lavoro hai svolto per ottenere un risultato così?
Innanzitutto il criterio di scelta per i personaggi del documentario è stato umano; cercando appunto di valutare il rapporto umano, in modo che potesse arrivare al pubblico dal legame di queste persone con la figura di Gaber, chiamando anche gente che non l’ha mai conosciuto, ma solo ascoltato.
E poi ascoltandolo: prima di parlare con le persone intervistate ci mettevamo ad ascoltare insieme la sua musica, per poi commentarla, sempre insieme. C’era quest’aria di chiacchierata, appassionata a volte, a volte anche più dolorosa, perché Gaber ha fatto anche questo, è stato divertentissimo, ha stimolato il divertimento delle persone attraverso la televisione, poi però con la stessa intelligenza ha raccontato il Paese, facendolo bene, nel profondo.
Andavo ogni anno ad ascoltare Gaber, avevo tra i 16 e i 18 anni, e in quegli anni lì si ascoltava Gaber perché arrivavano cose importanti da quella voce. È stato un uomo che ha avuto il coraggio di essere scomodo, di prendere decisioni scomode anche per se stesso, soprattutto per se stesso, pagandone il prezzo. Quando si fa una scelta così si è degni del massimo rispetto e della massima attenzione, e soprattutto della massima gratitudine.
Ti concentri molto sugli inizi della sua carriera, cosa rappresentano per te?
Sai, se si rivede la televisione di quel periodo, degli anni ’60 e anni ’70, si capisce quanta libertà ci fosse. Paradossalmente c’era più libertà in quella televisione lì, che era una televisione di censure dichiarate, dove una commissione definiva ciò che si poteva e che non si poteva dire. Ma si potevano dire molte più cose di quante se ne possano dire adesso, c’era il coraggio di andare contro la censura. C’era un grandissimo fermento. Quindi per me Gaber è di grandissima attualità.
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