Rheingold segna il ritorno di Fatih Akin al cinema: il regista de La sposa turca (2004) e Soul Kitchen (2009) si dedica stavolta alla storia vera, basata sul romanzo autobiografico Everything or Nothing, di Xatar, rapper, imprenditore e produttore tedesco di origini curde.
Il dialogo tra due mondi, quello di appartenenza e quello da cui si è stati adottati, fa da sfondo ad una storia di violenza e riscatto, realizzazione personale e sogno di rivalsa, senza mai abbandonare la leggerezza dello sguardo di un regista abituato a sovrapporre luoghi ed esperienze nella scrittura dell’animo più profondo dei suoi personaggi.
Sognare l’Oro del Reno
La musica è il filo conduttore di tutto il film, il titolo stesso, Rheingold, viene da Das Rheingold (L’oro del Reno), il primo dei quattro drammi musicali che costituiscono la tetralogia L’anello del Nibelungo, di Richard Wagner. Il vero nome di Xatar è Giwar Hajabi, e arriva bambino dall’Iran con i suoi genitori curdi iraniani, entrambi musicisti, in Germania a metà degli anni ’80 attraversando L’Iraq.
L’immagine dell’Oro del Reno, custodito dalle tre ninfe, è l’ideale simbolico che unisce leggenda, amore e ricchezza, forgiato dal paese straniero in cui i tre arrivano. Ma mentre i genitori spingono il figlio ad imparare a suonare, anche con notevole severità, qualcosa si incrina e il padre, ottenuto un lavoro come direttore d’orchestra, li abbandona.
Giwar (Emilio Sakraya) inizia a dedicarsi alla microcriminalità tra vendita di stupefacenti e commercio di filmati pornografici su VHS, e si aggiudica il soprannome di Xatar in palestra, luogo dove sembra aver abbandonato anche l’ultimo briciolo di sensibilità.
Ma l’amore per la musica si riaccende quando assiste ad un’esibizione del rapper tedesco di origine afghana Kanakonda (ora conosciuto come SSIO): quella è la congiunzione tra le sue due realtà, quello è il linguaggio che gli fa capire che è parte di una comunità capace di raccontarsi, con brutalità e poesia, strofe che sono un mash up di culture.
Ma come la musica anche il crimine è entrato a far parte della sua vita, e per “salvare l’oro” (o rubarlo per saldare i suoi debiti con il cartello) attraverserà un inferno che lo porterà in un centro di detenzione siriano per poi essere estradato in Germania con una pena detentiva. Sarà l’occasione per ritrovare un contatto con suo padre, e un nuovo approccio alla musica e al futuro che intende conquistarsi.
Il rap del Reno
Con l’intento di creare una narrazione epica, il regista realizza un film con un grande ritmo intrinseco e un messaggio che ben si allinea alla ricerca cinematografica e culturale presente in tutte le sue opere. La violenza è per il protagonista una facile via d’uscita per scappare di fronte al cambiamento imposto, alla fuga dalla propria casa per una vita migliore, anche se ci si sente rifiutati e diversi.
Sicuramente non tra i suoi più memorabili ma da guardare, soprattutto se vi è mancato Fatih Akin e la sua Germania affascinante e contraddittoria.
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