Zack Snyder torna con la prima parte di un nuovo universo narrativo: il suo Rebel Moon – Parte 1: Figlia del fuoco, scritto e diretto da lui, disponibile su Netflix da oggi.
Neobarocco e decisamente più simile ad una lunga cutscene introduttiva ad un mondo molto più vasto (e più intrattenente), Rebel Moon – Parte 1 è derivativo, pescando da molti franchise e film del passato. Non raggiunge una compiutezza artistica soddisfacente, eppure come svago puro è un film molto godibile.
Sette guerrieri dalle stelle lontane
L’impianto narrativo è quello de I Sette Samurai (1954) di Akira Kurosawa, e questo accresce la vicinanza con il primo grande franchise saccheggiato da Snyder: Star Wars.
Kora (Sofia Boutella) conosce meglio dei concittadini che l’hanno accolta qual è il destino riservato ai pianeti su cui le navi del Mondo Madre atterrano. Infatti arrivano giorni di paura per la città di Veldt quando la nave dell’ammiraglio Atticus Noble (Ed Skrein), il braccio destro del reggente Balisarius (Fra Fee), atterra sul loro pianeta: tra la città e l’esercito è stato stipulato un patto di derrate alimentari che se saldato porterà tutta la popolazione a morire di fame. Saranno Kora e il contadino Gunnar (Michiel Huisman) a incaricarsi di cercare il generale Titus (Djimon Hounsou) e dei guerrieri in grado di salvare la città di Veldt, così da sconfiggere la tirannia del Mondo Madre con cui Kora sembra avere dei trascorsi burrascosi.
Ogni eroe (viene quasi da dire giocabile), sarà reclutato su un mondo diverso, ognuno carico di citazioni cinematografiche e letterarie. A titolo esemplificativo, Tarak (Staz Nair), nobile principe sopravvissuto di un pianeta distrutto dal Mondo Madre, è uguale ad Arnold Schwarzenegger in Conan il barbaro (1982) di John Milius.
Cutscene prima della battaglia
L’atmosfera videoludica evolve piano piano, senza incontrare risvolti sociali, politici o filosofici: è puro intrattenimento. Snyder non ha velleità da pensatore, componendo un’opera sì derivativa, ma senza nessuna pretesa “artistica”; si respira un divertimento ancora non totalmente compiuto, prematuro visto che è solo una prima parte. Il regista ha intenzione di ampliare il suo universo in senso transmediale, con fumetti e videogiochi: anche la strategia di marketing deve essere una citazione a Star Wars.
Eppure le “missioni di reclutamento” non annoiano lo spettatore, anzi, lo ingolosiscono, perché dietro ogni pianeta c’è una realtà narrativa che Snyder è ansioso di mostrarci. Le spiegazioni personali di Kora sono dilazionate e intriganti, ed è naturale che in questo film venga approfondita solo la sua storia visto il sottotitolo, questo ci fa solo desiderare di sentire nei seguiti delle spiegazioni simili per tutti gli altri personaggi. Lo scontro finale poi raggiunge un piacere di eccitazione sensoriale ludico e soddisfacente, unica pecca narrativa a livello di ritmo è il falso finale dell’ammiraglio Noble (ma taccio ulteriori dettagli).
La regia di Snyder si mette al servizio serrato della sua storia, non incespicando in virtuosismi se non con i suoi classici ralenti che talvolta frustrano la fluidità delle sequenze d’azione. Gli effetti speciali sono saturati ma realistici, aumentando l’atmosfera videoludica di pura energia intrattenente.
L’annosa questione della derivazione – 2020-2021
Voglio inserire Rebel Moon in un discorso sulla continua “derivatività”, o mancanza di originalità, del nuovo cinema di fantascienza, comparandolo ad alcuni film fantascientifici degli anni ‘20 del duemila. Lasciamo da parte franchise enormi e saghe iniziate prima del 2020; consideriamo solo certi sequel fuori tempo massimo, rilanci in grande stile e film “originali”.
Ironicamente, in un anno disastrato come il 2020, un film come Tenet di Christopher Nolan si è rivelato viziato da un’originalità quasi asfissiante, e a tratti ostica da comprendere, a fronte di un comparto visivo notevole. Il manierismo di Nolan ha preso il sopravvento sull’opera stessa. Invece nel 2021 abbiamo avuto il Dune – Parte 1 di Denis Villeneuve, dove l’originalità era data dalla semplice fedeltà narrativa e visiva univoca ad un’opera letteraria ambiziosa e difficile da realizzare; niente aggiunte autoriali e niente freni di budget all’epica visiva (speriamo che a breve questo meraviglioso risultato estetico si ripeta e faccia la storia del genere).
Narrativamente deboli e banali sono stati nello stesso anno Finch di Miguel Sapochnik, e Tides di Tim Fehlbaum: molto più coraggioso e forte di un’intensa intimità narrativa è stato Swan Song di Benjamin Cleary. In quest’ultimo l’assenza di originalità è stata rimpiazzata da una visione ravvicinata del tema della clonazione: un nuovo modo di inquadrare un tema ben noto.
E agli antipodi tematici e creativi di Dune abbiamo invece Titane di Julia Ducournau, con cui condivide però la forza e la compiutezza estetica. Travolgente e pervasivo, anche se debitore del cinema di Cronenberg, Titane è riuscito a mescolare horror e fantascienza in maniera originale e artistica. L’adattamento fedele, una nuova prospettiva narrativa o un dialogo con un altro genere: sono vie interessati per il cinema di fantascienza del futuro.
Originale, questo sconosciuto – 2022-2023
Nel 2022 Roland Emmerich continua la sua altalenante scia di film catastrofici con Moonfall, residuo moribondo dei suoi successi degli anni ’90. Contrastante invece l’esito di Sognando Marte di Christopher Winterbauer, intimo ma eccessivamente patinato, derivativo del piccolo cult Passengers (2016) di Morten Tyldum.
Frastornante ed inutile il russo Project Gemini di Serik Beyseu, cumulo maldestro di idee abusate in moltissimi film precedenti.
Uscito in sordina, ma sorprendente e intelligente è invece LOLA di Andrew Legge, basato sulla tecnica del found footage. Qui l’atmosfera intima si coniuga ad un’originalità “analogica”, esplorando un genere ben definito ma potenzialmente illimitato: l’ucronia (potete recuperarlo su Raiplay).
Vera sorpresa dell’anno però fu Prey di Dan Trachtenberg, che dimostrò come l’avventura e l’azione possono raggiungere dei picchi artistici ed estetici anche con pochissimi dialoghi, come fece Jean-Jacques Annaud con La guerra del fuoco (1981). Prey ha anche dimostrato come i sequel/prequel possono essere un territorio di rinnovamento visivo, un genere vero e proprio dove l’originalità è abilmente infusa in un franchise famoso.
Veniamo a questo anno che finisce: il 2023 si è rivelato estremamente carente sul piano dell’originalità, tematica o visiva che sia, per il cinema di fantascienza. 65 – Fuga dalla Terra, di Scott Beck e Bryan Woods, è sembrato a tutti un film narrativamente fermo agli anni ‘50, a Prigionieri dell’Antartide (1957) di Virgil W. Vogel.
The Creator, di Gareth Edwards, è stato invece un coacervo di citazioni cinematografiche condite da una pomposa seriosità tematica che sfruttava gli espedienti più in voga all’epoca, e ora già parzialmente rimpiazzati. Di originale non aveva né i temi né le citazioni impiegate, che anzi fagocitano ogni microscopica idea interessante; l’aspetto visivo invece era impeccabile (ma non quello sonoro!).
E ora Rebel Moon, dove la seriosità è però impiegata in una dimensione così saturata e videoludica da farci capire come il film di Snyder sia leggero e votato pienamente al divertimento: più giostra che cinema. Ma non disperiamo, il cinema di fantascienza è sicuramente ancora capace di originalità, ma deve battersi ogni giorno contro delle produzioni enormi e fallimentari che macchiano la sua reputazione contemporanea.
In breve
Rebel Moon è il primo capitolo di una serie dal potenziale intrattenente smisurato. Forse sarà il “giocattolo” preferito da molti per questo decennio, o forse un’opera dimenticata tra i cataloghi annuali di film come Gods of Egypt (2016) di Alex Proyas. Dividerà certo il pubblico e la critica, ma che sia un fallimento o un successo sono certo che sentiremo ancora parlare di Zack Snyder. E io spero con Rebel Moon – Parte 2.
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