Esperimento ipnotico, Real è il film più singolare che troverete al cinema in questo novembre 2024. Documentario con un twist visionario, il lavoro di Adele Tulli indaga la realtà virtuale e quella fisica, il loro contrasto e l’idea che un giorno possano fondersi in un mondo nuovo, in cui la distinzione sarà sempre più complessa.
Presentato in anteprima allo scorso Festival di Locarno e vincitore del Premio della giuria al Festival del film di Villa Medici, Real arriva in sala il 14 novembre distribuito da Luce Cinecittà.
Non è reale solo ciò che è fisico
Cos’è reale? Cosa si intende per realtà nell’era digitale che l’umanità sta vivendo? Quante realtà esistono? Queste sono solo alcune delle domande che sorgono guardando Real, intreccio di diverse storie con un forte denominatore comune: il rapporto umano con la VR, inteso in senso stretto come seconda vita online, ma anche come immagine di sé che si proietta attraverso ogni tipo di social network.
Adele Tulli si spinge oltre i limiti del cinema stesso e dirige il film anche dentro la realtà virtuale. Grazie a una numerosa squadra di designer porta il pubblico in questa dimensione altra, in cui è chiaro che tutto è vero, pur non essendo fisico. Lo dimostra con un esempio molto forte, il racconto di una relazione queer fra due persone che si incontrano solo attraverso gli avatar. La VR, infatti, soprattutto per chi affronta una transizione di genere, spesso aiuta a capire la propria disforia di genere o, semplicemente, a vivere alcune esperienze in modo più sicuro, senza uscire nel mondo (omofobo o transfobico).
Allo stesso modo, Tulli racconta come anche il sex work stia cambiando rapidamente e come non richieda più necessariamente un incontro fisico, così come diverse altre attività sociali che si chiudono sempre più fra le mura di casa, passando attraverso internet: dai rider agli influencer, fino alle smart house che immagazzinano dati e abitudini dei loro inquilini.
Le conseguenze di una realtà virtuale
Lo sguardo di Adele Tulli, tuttavia, non è neutrale e non è detto che lo voglia essere. Come un rumore di fondo, ineliminabile, in Real persiste l’idea che a lungo andare la conseguenza più grave a cui la tecnologia condanna l’umanità sarà una profonda solitudine, da cui non si riuscirà a fuggire.
Molto più delle scene distopiche delle case intelligenti di Busan, che somigliano pericolosamente alle pagine di 1984 di George Orwell, infatti, colpiscono i brevi video dei content creator che parlano di depressione, il bisogno continuo di mostrarsi online per dimostrare a se stessi di esserci o, ancora, le decine di meme e TikTok che si ammassano in una solo sequenza del documentario, mettendo il pubblico davanti alla prova del tempo sprecato nel doomscrolling. Ossia ore e ore a inseguire e ingurgitare contenuti senza chiedersi come o perché.
Quella che in Real nasce come una riflessione a distanza, con una certa ricerca estetica, da videoarte, si conclude in un messaggio di denuncia silenzioso, che può cogliere meglio forse chi già sa come funzionano certe nuove tecnologie, soprattutto quelle che usano le intelligenze artificiali.
Dalle telecamere di sicurezza all’identificazione delle persone per strada (durante le manifestazioni per esempio), o in mare (sui barconi dei migranti) le IA che influenzano quotidianamente la nostra vita hanno un lato oscuro e pericoloso che non è detto che riusciremo – o saremo disposti – a controllare, proprio come non abbiamo controllato l’illusione di una connessione reale continua anche se non fisica, con gli altri, che si è trasformata nella spirale di isolamento di questi nuovi anni Venti post-pandemia.