Mario Martone con Qui rido io mette in scena la storia del più importante attore e autore del teatro napoletano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento.
Eduardo Scarpetta è pura carnalità. Un elogio del sangue e delle origini. Innamorato di se stesso e dei piaceri della vita, risulta essere un edonista quasi per vocazione, così come lo è stato per il teatro.
Un commediografo che diviene simbolo di rivendicazione di qualsiasi cosa. Idee, famiglia, figli, lavoro.
Già dal titolo del film si delinea il fil rouge della narrazione, un annuncio che si fa grido di egocentrismo smisurato del protagonista. Qui rido io è affermazione di proprietà incontrovertibile, non solo della sua risata, ma anche del suo nome.
Ma quello è D’Annunzio!
E allora? Io Sono scarpetta
Monologhi e dialoghi fatti di un io imperativo ed onnipresente, a tratti fastidioso, che porta lo spettatore a invidiare e detestare al contempo il protagonista.
Le troppe maschere di Martone e la poca rivoluzione
Un Eduardo Scarpetta atipico, quello presentato dal regista. Una maschera nella maschera, una parodia della parodia stessa.
Si preferisce caricare il personaggio di presunzione e narcisismo, salvato solo da un’interpretazione eccezionale di Toni Servillo che gli rende onore, dimenticando l’aspetto più rilevante, la rivoluzione.
Scarpetta è il rivoluzionario, è colui che ha ribaltato le sorti del teatro e che, come Napoli, non ha aspettato la “modernità” per poter essere post-strutturalista. È la modernità stessa ad essersi plasmata su lui. Ed è esattamente quella scintilla di avanguardismo che, nel film, manca in modo invalidante. Soprattutto per chi, al teatro di questo autore, è abituato.
Padre di figli legittimi ed illegittimi, compagno di donne amate contemporaneamente, solo per la brama di essere idolatrato. Questo è ciò che viene messo in luce da Qui rido io, ma Scarpetta è molto di più di una trama ordita ad hoc per una telenovela.
Dov’è finita la voglia di rivalsa del popolo sofferente, contro la borghesia imperialista? Martone non lo racconta. Non basta mettere in scena lo scontro tra D’Annunzio ed Eduardo Scarpetta, per far comprendere e metabolizzare il soffocamento, l’auto-espressione del popolo partenopeo e l’uniformazione del teatro d’arte a quello parodistico.
Una teatralità che viene ripensata, rimodellata, riadattata, sotto il segno della parodia, una forma di espressione diversa, includente e che si rivolge a tutti, senza distinzione culturale e sociale alcuna, coniata dallo stesso Scarpetta.
La prima storica causa sul diritto d’autore in Italia
È apprezzabile invece la cura precisa del quadro che ruota intorno all’atto-fatto giuridico. Il coinvolgimento delle figure di D’Annunzio, Benedetto Croce e lo stesso Scarpetta ha creato uno straordinario precedente, capace di scalfire tutte le accuse di plagio che si sarebbero presentate da quel momento in poi nel mondo degli artisti. È la prima storica causa del diritto d’autore in Italia e Martone l’ha saputa narrare in modo chiaro e onesto.
Sensuale ed intellettualmente raffinato risulta essere il discorso dello storico Benedetto Croce (interpretato da un bravissimo Lino Musella), fatto di parole inappellabili, che tracciano una verità antropologica e filosofica innestata tra la differenza, così impercettibile, ma così tanto acuta, tra il comico ed il tragico, tra l’arte dei borghesi, e la parodia dei popolari. Un confitto teatrale che si radica in quello sociale.
In breve
Ciò che risolleva le sorti del film è l’interpretazione inimitabile del mostro sacro Toni Servillo, che ancora una volta si è calato perfettamente nei panni del protagonista, riuscendo a restituirgli la passione temeraria e partenopea che lo ha contraddistinto.
Un apprezzamento particolare è da fare anche ai costumi di scena, che rinviano fedelmente agli anni dell’inizio ‘900, capaci di distogliere gli occhi e la mente dalla linea del tempo che scorre. Un risultato buono per quanto concerne la controversia giuridica, ma altrettanto lacunoso per quanto riguarda l’aspetto riformista del teatro popolare e della parodia, che lascia l’amaro in bocca.
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