"Paul McCartney (and Wings)" by slagheap su licenza CC BY 2.0.
"Paul McCartney (and Wings)" by slagheap su licenza CC BY 2.0.

Io che sono un Beatle, vi dico che i Beatles non esistono più (Paul McCartney)

Il 5 agosto del 1945, quando la voce dell’imperatore Hirohito gracchiò attraverso i rudimentali apparecchi radiofonici di tutto il Giappone, non furono le sue parole di resa nel conflitto mondiale a sconvolgere i cittadini dell’Impero, ma qualcosa di molto più drammatico: un Dio aveva dichiarato di essere umano.

Bastò una criptica comunicazione a distruggere in un attimo una cultura secolare, una religione millenaria, a rendere insensata l’esistenza di centinaia di generazioni aggrappate alla fede incrollabile nell’Imperatore-Dio: una figura sacra e silenziosa, come deve essere quella di una divinità, presente ai propri credenti come un’assenza. E come una divinità, non doveva avere voce che orecchio mortale potesse ascoltare: almeno fino a quel momento, nessuno l’aveva mai sentita prima.

Per questo, le parole dell’imperatore-Dio persero tutto il loro senso di fronte a ciò che esprimeva, da sola, la sua nuda voce: “io che sono Dio, vi dico che Dio non esiste”.

Il suicidio di una “divinità”

Venticinque anni dopo, il 10 aprile del 1970, si ripete l’incredibile suicidio di una divinità, seppure in modalità completamente differenti: la voce di chi parla, infatti, l’hanno già sentita tutti, migliaia e migliaia di volte, e possono riascoltarla all’infinito, perché è quella di Paul McCartney, uno dei leader della più celebre band della storia della musica, i Beatles. Come quella di Hirohito, la sua voce sembra gracchiare attraverso gli apparecchi radiofonici, ma stavolta sono le parole a sconvolgere il mondo intero, dicendo quello che le orecchie umane non avrebbero mai voluto ascoltare: “io che sono un Beatle, vi dico che i Beatles non esistono più“.

Nessuno può dimostrare l’esistenza fisica di Dio, ma possiamo essere certi della sua esistenza in quanto idea, prodotto della convinzione umana, perché una divinità è reale finché qualcuno crede che esista.

Ma quando è il Dio stesso a dirci che non esiste e a distruggere la nostra fede, facendo crollare tutti i valori morali e culturali su cui si è fondata la nostra intera esistenza, si crea un vuoto  incolmabile. E non soltanto per chi credeva in lui, ma anche per la divinità stessa: perché la prima cosa che perde un Dio quando si libera della propria aura divina, forse, è l’immortalità.

Certo, quello che è stato e quello che ha fatto resterà per sempre, ma diventa qualcosa di altro da lui, come l’artista e la sua opera d’arte: e l’artista senza la propria arte è un essere umano come tutti, un essere mortale.

Lo scioglimento dei Beatles

Quando i Beatles si sciolgono, distruggono la loro aura divina, la scindono in quattro parti per dividerla tra loro. Ma così scissa non può avere più la forza che aveva prima. Forse, solo il genio individuale riesce a farla sopravvivere, quello che ognuno dei quattro dimostra di avere, anche diviso dagli altri.

Eppure basta poco per capire che nemmeno il genio permette di sfuggire al destino inevitabile cui si condanna un Dio che commette un suicidio: venire inghiottito dallo stesso vuoto che ha prodotto, dal quale si esce soltanto col suo sacrificio.

Non è il ragionamento esagerato di un filosofo, ma una reazione sociale concreta che la Storia dell’antropologia non smette di riportarci sotto forme diverse, di epoca in epoca: è quello che ci racconta Joseph Conrad in Cuore di Tenebra, in fondo, quello che ci mette di fronte agli occhi Francis Ford Coppola con Apocalypse Now, quella lucida follia che trasuda dalla maschera di Marlon Brando nei panni del dio sacrificato, il Colonnello Kurtz.

Divinità e artista

Un Dio non si limita a vivere in un’epoca e in una società, ma le fonda. Come fa un artista, come hanno fatto i Beatles. Perché il vero miracolo di un Dio è lo stesso miracolo dell’arte: ricreare il tempo in cui vive, quello sociale, ma anche quello della coscienza di ognuno di noi, allargando quella linea retta che scorre inesorabile, per farcene esplorare la profondità.

Uniti i Beatles erano una divinità che ha saputo forgiare la propria epoca e tutta la società, cambiando il tempo. Divisi, hanno dovuto ritagliarsi un nuovo ruolo dentro quella stessa società, assoggettandosi a quel tempo che loro stessi avevano creato e che, con la loro rinuncia, ha ripreso a scorrere senza più profondità. Paul, John, George e Ringo, hanno usato il loro talento per riuscirci, quel genio che li ha elevati al di sopra della media comune, anche se non abbastanza in alto per tornare ad essere divini. Perché, dopo essersi dichiarati mortali, per rientrare divisi dentro quella società che loro stessi avevano creato insieme, per essere riaccettati da essa sotto un’altra forma,  c’era un solo modo: lasciarsi sacrificare.

Forse nemmeno per la rabbia della disillusione, forse semplicemente perché così doveva essere, perché così è dai primordi della società umana: non sei più Dio, non sei più immortale, quindi puoi morire, quindi devi morire.

E non è semplicemente l’assassinio di John Lennon, la morte dell’amata Linda McCartney, la malattia di George Harrison, ma è qualcosa di più profondo, di più nascosto, che fluisce nelle loro esistenze umane e artistiche come prima non accadeva, quando erano i Beatles. Forse è soltanto il tempo, che ha ricominciato a scorrere dopo quella decisione. Per loro e per tutto il mondo: ad entrambi non resta altro che dimenticare quelle parole pronunciate da McCartney 53 anni fa, tenendosi soltanto la sua voce, quella che potremo ascoltare a ripetizione, all’infinito, inscindibile da quella di John, dalla chitarra di George e dalla batteria di Ringo.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.