«Io non credo che l’uomo di cinema debba lavorare soltanto per se stesso. Credo, cioè, nel cinema come spettacolo, come mezzo di comunicazione di idee generali. Credo che senza il suo naturale ed unico interlocutore – che è il pubblico a lui contemporaneo – il cinema si svuoti di una grande parte della sua vitalità. Partendo da questo principio, mi pare che le prospettive del cinema libero – o, per meglio dire, le prospettive di una liberazione del cinema- siano connesse con quelle della nascita di un pubblico libero, quelle cioè della liberazione del pubblico dai suoi condizionamenti».
Parole di Elio Petri (1929-1982), da un’intervista del 1964, che sintetizzano un’idea del mezzo cinematografico condivisa e praticata non solo dal regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), ma da molti autori che hanno scommesso e scommettono sulla possibilità di realizzare prodotti innovativi nella forma e polemici nel contenuto, senza rinunciare al coinvolgimento del grande pubblico.
Accettando, dunque, la sfida di impiegare le risorse dell’arte che si fa spettacolo e i codici dello spettacolo che si fa genere (anzi, generi), non per piegarsi alle convenzioni e imposizioni dell’industria, ma per piegare (quando non rompere) queste dall’interno. In poche parole, un “cinema medio” di cui, ancora oggi, c’è un gran bisogno.
Dopo Petri, decostruire i generi, ieri e (tanto più) oggi
“Cinema medio”, ovvero «sufficientemente carico di umori e fermenti contemporanei, ma anche di soluzioni narrative e di forza spettacolare», come lo ha definito Lino Micciché (1980). Ed è una macro-categoria a cui si può ricondurre senza dubbio gran parte di quel “cinema politico” italiano degli anni Sessanta-Settanta di cui proprio Elio Petri è considerato uno degli esponenti più emblematici. Ma vi potremmo riconoscere anche prodotti recentissimi e diversissimi (anche) per sistemi produttivo-culturali di provenienza e immaginari di riferimento.
Solo due esempi (tra i molti possibili), rispettivamente il film e l’autore che nella passata stagione (l’attuale ci sembra ancora difficile da inquadrare, causa Covid-19 e non solo) hanno portato avanti discorsi incandescenti sulla diseguale società contemporanea raggiungendo un inaspettato successo di pubblico (oltre che di critica): l’anti-cinecomic Joker di Todd Phillips, da un lato, e Bong Joon-ho, dall’altro. Non tanto e non solo il Bong dell’acclamato Parasite, ma quello che (ancora di più con film come il noir Memorie di un assassino, il monster-movie The Host e l’action distopico Snowpiercer), ha maneggiato esplicitamente le regole del mainstream per destrutturarle a modo suo, nel mezzo e nel messaggio.
Con tutte le ovvie e debite differenze, non ci sembrano allora così lontane dall’idea di cinema espressa da Petri né la rivisitazione personalissima e socio-politicamente critica di generi di consumo condotta dal regista sud-coreano, né l’anomala origin story della nemesi di Batman, dove elementi (comunque evidenti) della tradizione narrativa a (e da) fumetti di supereroi vanno in corto circuito con l’(est)etica della New Hollywood secondo Scorsese.
Si parla, in ogni caso, di un cinema classificabile come “medio” secondo la definizione che abbiamo visto, ma forse (e per fortuna), non “di mediazione”. Perché il risultato (e la scommessa vinta) di film come Joker e di autori come Bong è stato far arrivare una critica (radicale) della società capitalista contemporanea a un pubblico di massa, ma non semplicemente attraverso un “compromesso” col cinema di genere: i generi, a ben vedere, ne escono riletti quando non sabotati, e addirittura stravolti.
L’industria e gli incendi(ari)
Ed erano riletti, sabotati e stravolti, senza essere rifiutati integral(istica)mente a priori anche i codici del poliziesco, del giallo o della commedia in film come Indagine su un cittadino, La classe operaia va in paradiso (1971), Todo modo (1976): tra deformazioni espressioniste, esasperazioni grottesche e soluzioni narrative (oltre che rappresentative) programmaticamente stranianti, dalla paradossale inchiesta “contro se stesso” del commissario di Indagine (decostruzione anticipata di tanti poliziotti del decennio che seguirà) ai depistaggi onirici dell’apologo anti-DC tratto da Sciascia.
E pensiamo anche a casi meno noti e non meno interessanti come Un tranquillo posto di campagna, quasi un proto-Shining dove materiali da thriller psicologico ed horror soprannaturale coesistono con sperimentazioni formali (dal montaggio frammentario alle musiche dodecafoniche di Morricone) per veicolare un discorso sull’alienazione dell’artista (e dell’uomo) nel nuovo totalitarismo della società dei consumi.
Non si tratta, allora (oggi come ieri), di “andare d’accordo” col cinema commerciale e le sue regole: si tratta di introdurvisi per appiccare il fuoco, possibilmente l’incendio. E non che si debba, per questo, trascurare (populisticamente) il cinema “d’autore” (virgolette d’obbligo, specie nel 2020) o denigrare pregiudizialmente (e aristocraticamente) un prodotto “commerciale” di buona fattura. Un’arte plurale (e pluralista) è un’arte che sta (e fa) bene, come ammetteva lo stesso Petri: «Come spettatore sarei ben triste se mi togliessero i film d’avventure, o i film di Totò; non vorrei semplicemente che tutto si riducesse al loro livello» (1962).
Ma un cinema che metta in contatto i due poli per far esplodere le istanze dell’uno tra gli ingranaggi dell’altro, è forse il più urgente nel contesto odierno: dove uno dei principali problemi, nella cultura e (quindi) nella società, è proprio la dicotomia tra “alto”-elitario e “basso”-popolare che il postmoderno non ha ricomposto, e che anzi nella crisi (politica, sociale, culturale) di oggi si accentua e viene cavalcata strumentalmente da chi, sulla distrazione di massa, costruisce le proprie fortune economiche (o elettorali).
Un’alternativa possibile, nella notte che ancora dura
L’operazione di certo “cinema medio”, allora, può essere (spariamola grossa) tra i fermenti e i frammenti di una nuova avanguardia, forse dell’unica avanguardia ancora realmente possibile in un tempo (drammaticamente) orfano di rivoluzioni come il nostro. Con tutti i rischi e le contraddizioni che una simile strategia comporta.
Il caso di Petri (che chiamava ironicamente il suo tipo cinema anche “polpop”, politico-popolare) è emblematico anche in questo senso. Tra “bracci di ferro” (parzialmente) perduti (La decima vittima, coraggioso tentativo di distopia “all’italiana” martoriato dal produttore Carlo Ponti) e rifiuti incrociati: dalla cultura militante che, per bocca di Straub, arrivò a invocare il rogo per il «reazionario» La classe operaia, e quel sistema produttivo da cui lo stesso Petri prese le distanze alla fine dei ’60 e che con la crisi di fine ’70 prese, drasticamente, le distanze dal suo cinema ormai (all’altezza di Todo modo, di Buone notizie o della mai girata meta-spy story Chi illumina la grande notte?) all’apice della sua tensione critico-apocalittica e corrosiva (sempre dall’interno) verso le logiche dei generi tradizionali.
La sfida è (ancora) complessa e ardua. Ma il mondo (anche letteralmente) in fiamme di oggi ha tanto più bisogno che si continui a raccoglierla, sulla scia degli esempi più significativi di questi ultimi anni. Serve (e servirà) un cinema “medio” anche (e soprattutto) nel suo porsi al centro delle categorie invalse e delle loro opposizioni: impegno e intrattenimento, genere e autorialità, cultura “alta” e “popolare”, per farle inciampare, deragliare, deflagrare.