È passato un anno dall’ultimo film di Paolo Sorrentino ed il fischio di Maria Schisa e i fuochi tonanti di Piazza Plebiscito sono ancora forti e impressi nella mente di molti, nella mia senz’altro, e dubito se ne andranno mai.
Un percorso lungo, quello di È stata la mano di Dio, ma ricco di premi e riconoscimenti: la notte degli Oscar, la vittoria ai David di Donatello e l’uso ormai quotidiano dell’imprecazione di Antonio Capuano rivolta a Fabietto Schisa: non ti disunire.
Una frase che è stata capace di coinvolgere adulti e adolescenti, nord e sud, credenti e miscredenti, tutti compassionevolmente riuniti nel desiderio di non volersi perdere, disunirsi appunto. Sorrentino certo non l’ha fatto, dimostrando sin dagli albori della sua carriera artistica, di perseguire quel costante senso di inadeguatezza e smarrimento dell’esistenza umana, che deriva dal significato della vita: che è niente, è solo un trucco, è “na strunzat”.
La necessità perseverante e claustrofobica di volersi allontanare dalla propria natura, non è altro che spreco inutile di energie, destinato a dissolversi in una fauna decadente.
Allontanarsi per poi tornare
“Che ci vai a fa a stu Roma?”. Credere di poter diventare persone migliori grazie ad una realtà diversa rispetto alla nostra è un’illusione che ci concediamo per renderci superiori rispetto a ciò che siamo, non considerando, che alla fine, si diventa sempre ciò che si è, ritornando sempre a noi stessi, al fallimento. Perché è tutto un fallimento.
Il “non ti disunire” è quindi una preghiera, una richiesta, che poco ha a che fare con lo spazio ed il luogo. È una dimensione astratta, uno stato d’animo che affonda le radici nella nostra essenza più intima e recondita, nelle esperienze, nel passato, nei ricordi, nel dolore, nella gioia, nella vita.
L’acrobazia mentale che rimanda a La grande bellezza, più precisamente al personaggio de La Santa (uno tra più importanti del mondo sorrentiniano), ricorda di quanto “le radici siano importanti”, non solo attraverso il senso di appartenenza fisico, ma soprattutto morale, culturale e intellettuale.
Il racconto di Fabietto Schisa
Fabietto Schisa, alter ego di Paolo Sorrentino, non si è disunito. Ha raccolto la raccomandazione, salendo su quel treno per Roma. Si, è andato a Roma, ma caricandosi sulle spalle uno zaino pieno di perenne malinconia e disincanto, che lo hanno contraddistinto da subito. Dal viso ricolmo di tenerezza e tristezza al contempo, del piccolo Schisa, nel vedere Marchino, stringersi nelle braccia della fidanzata, mentre lui “non ha amici”, a ritrovarsi nel letto con la madre ricevendo una dolce carezza e infine nella dolce premura di dover obbligatoriamente pensare al futuro. Fabietto era destinato alla sensibilità.
Fabietto incarna una solitudine e un sentimento di abbandono trasposti da sempre nei personaggi ai quali il regista ha dato vita negli anni. La desolazione di Tony Pisapia, la solitudine provocata dalla paura della non reciprocità dei sentimenti di Titta De Girolamo, l’inadeguatezza di Geremia, lo smarrimento e l’incompiutezza di Cheyenne, il forte disincanto di Jep Gambardella, lo stato di abbandono di Lenny Belardo: sono aspetti meravigliosi e rilevanti, o forse “irrilevanti”, che vengono restituiti unitamente ad una persona, a Fabietto Schisa. A Paolo Sorrentino.
“Non ti disunire Schisa. Non ti disunire mai”.
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