L’Orvieto Cinema Fest 2024 torna dal 22 al 29 settembre 2024 con un ricco concorso internazionale di cortometraggi. Anche quest’anno ve lo raccontiamo su Framed Magazine con una selezione quotidiana di film in programma.

I cortometraggi che abbiamo visto all’Orvieto Cinema Fest 2024 il 28 settembre

Circle di Joung Yumi (Corea del Sud, 6′)

Una bambina disegna un cerchio per terra e chiunque passi nello stesso punto dopo di lei sembra essere al tempo stesso attratto e costretto a fermarsi dentro i confini di quella sottile linea geometrica. Potrebbe voler dire qualsiasi cosa: è forse un gioco? Un gesto sovrappensiero? Oppure è una metafora della vita? Dei confini personali, delle persone che vi entrano senza mai uscirne davvero e a volte sentendosi in trappola.

O ancora, è forse l’immagine dell’Io? La bambina che disegna il cerchio dall’interno, facendo da compasso, riesce però a uscirne facilmente, a differenza di tutti gli altri. Allora forse il cerchio altro non è che la costrizione che la società ci cuce addosso e a cui ci abituiamo fino a quando quella stessa bambina torna a cancellarlo e restituirci lo spazio che da soli ci siamo tolti.

Circle, Joung Yumi

Valeria Verbaro

When the Wind Rises di Hung Chen (Taiwan,18′)

Sull’isola di Taiwan l’anziano pescatore Huang (Chung-Ming Chiang) è la voce dell’opposizione contro l’espansionismo della raffineria di petrolio che confina con il suo villaggio, la stessa che lo sta portando alla morte per cancro. La lotta di Huang e di una parte degli abitanti è costantemente minata dal benessere che la fabbrica promette; aiuti economici per i tempi moderni che però saranno conseguiti sulla pelle della gente. Huang questo lo sa ma nonostante la malattia è deciso a fare qualcosa per cambiare la situazione.

Lo stile registico minimale cattura questa piccola ma fiera collettività che lotta contro il colosso moderno che incombe, tirannico e costante, sulla loro vita e sul paesaggio; una presenza imponente che sovrasta sogni inquadratura in esterni, assurgendo a unico e distopico orizzonte possibile.

When the Wind Rises, Hung Chen
When the Wind Rises

Francesco Gianfelici

Kaminhu di Marie Vieillevie (Francia, 15′)

Racconta l’amore (im)possibile al tempo del neocolonialismo il corto Kaminhu di Marie Vieillevie, tra le forme e i movimenti di un’animazione essenziale che fa risaltare i colori dell’incontro tra due mondi, sull’isola di Santiago, Capo Verde. Dove approda una giovane artista francese, in viaggio per sentirsi libera, e dove vive un pescatore, prigioniero di una terra saccheggiata e impoverita.

Li doppiano rispettivamente Victoire Du Bois e Tcheka, anche autore delle musiche. Ed è una partitura di sguardi, parole, corpi e anime che si scrutano, si desiderano e conoscono quella che unisce i due protagonisti, dove il concerto a due non è mai davvero isolato da quello di un’intera comunità. Ma la stonatura è nel bagaglio di lei che ne tradisce l’appartenenza. A un’Europa che ancora depreda il mare di lui e del suo popolo. E l’oceano spalancatosi tra i loro mondi ci interroga sulla nostra idea di libertà. Quella che cerchiamo, quella che continuiamo a negare ad altri.

Z.O. Zona orientale di Loris G. Nese (Italia, 14′)

«Una non-città, quasi di cartone»: così viene definita, nel vecchio reportage che apre Z.O. di Loris G. Nese, l’altra Salerno. Non quella del centro storico, ma quella della speculazione edilizia, un agglomerato di palazzoni nati e cresciuti caoticamente, orfani di passato e di servizi pubblici e sociali che garantiscano un presente, e un futuro. Viene da lì il protagonista, che rievoca la sua storia (narrata dalla voce ruvida di Francesco Di Leva), tra i sogni calcistici della Salernitana alla fine degli anni ’90 e gli incubi di un’infanzia già sporcata dalle faide criminali dei padri.

Da documentario d’archivio, allora, il corto si fa (anche) memoriale noir del Purgatorio di una coscienza nell’Inferno della società. Con la rabbia in bianco e nero de L’odio di Kassovitz e l’espressionismo della Gomorra di Garrone, ma in un’animazione che ricorda i carboncini graffiati di Simone Massi, onirici e crudamente materici a un tempo. C’è tutto questo nel teatro delle ombre di Z.O. Dove il discorso su una realtà e una vita si fa esperienza visiva, e quel buio che nutre e minaccia di inghiottire i personaggi rimane attaccato addosso.

Emanuele Bucci

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