Four Holes, Estudio ST / Vega Alta Films
Orvieto Cinema Fest 2024. Four Holes, Estudio ST / Vega Alta Films

L’Orvieto Cinema Fest 2024 torna dal 22 al 29 settembre 2024 con un ricco concorso internazionale di cortometraggi. Anche quest’anno ve lo raccontiamo su Framed Magazine con una selezione quotidiana di film in programma.

Qui tutti i cortometraggi della prima giornata di proiezioni di Orvieto Cinema Fest 2024.

Il burattino e la balena di Roberto Catani (Italia, 8′)

Quante versioni di Pinocchio esistono al mondo? Tante quante i modi di raccontare la ribellione: infiniti. Roberto Catani ne propone una in soli otto minuti e senza dialoghi, solo attraverso i suoi disegni a “Oilbar, gesso, pastello e puntasecca”, su un foglio bianco. Il suo è un “burattino che non diventa bambino”, che per un attimo guarda negli occhi un mondo vuoto e omologato e da cui sceglie di scappare. Solo così può sperare di salvare la gioia – infantile e naturale – di sentirsi vivo, battendo i piedi a terra come in una danza a cui è impossibile sottrarsi.

Il burattino e la balena - Courtesy of Miyu Productions, Withstand Film
Il burattino e la balena – Courtesy of Miyu Productions, Withstand Film

In the Waiting Room di Moatasem Taha (Palestina, 15′)

Hussien, giovane uomo palestinese, accompagna la madre Rashida in un ospedale israeliano per un controllo. Per tre mesi l’anziana donna non è uscita di casa, onorando come da tradizione il lutto per la morte del marito. Mentre però Hussien è costretto a lavorare al computer per una scadenza imminente, Rashida tenta di socializzare come può, parlando solo arabo e non ebraico.

Comico nei toni, nei dialoghi, nelle interazioni e nelle interpretazioni, In the Waiting Room diventa in realtà un corto drammatico se guardato senza mai perdere di vista il contesto. Rashida è una donna anziana costretta a capire una lingua che non le appartiene, ma che parlano le istituzioni. E non si tratta di una semplice barriera linguistica. Nonostante la cordialità dei personaggi israeliani in quella stessa sala d’attesa, il torto che subisce Rashida, costretta a portare con sé il figlio per fare da interprete, è molto più profondo. E lei stessa lo sottolinea rifiutandosi di parlare ebraico da oltre 70 anni. Dal 1948.

Valeria Verbaro

Bye bye turtle di Selin Öksüzoğlu (Francia, 24′)

Due figlie, due ritorni, due storie parallele che si incontrano su altipiani deserti ricoperti di nebbia e silenzio. Inci, una bambina che si allontana da casa per lasciarsi alle spalle la malattia della madre, incontra la giovane donna Zeynep, che lontana da casa ha trascorso gli ultimi anni ed è tornata per andare a trovare suo padre e portargli un regalo.

Dalla mattina alla sera, in Bye bye turtle le due viaggiano senza fermarsi, e nonostante l’età e le diverse esperienze hanno sensazioni affini, solitudini complesse. Si incontrano su note nostalgiche, quelle di una colonna sonora che incornicia femminilità prigioniere, luoghi vasti che in realtà si stringono come gabbie attorno alle due protagoniste. Presentato alla scorsa Berlinale, il cortometraggio di Selin Öksüzoğlu sorprende per il suo ritmo dolce e cadenzato, che conquista.

Bye Bye Turtle, Apaches films

Kawauso di Akihito Izuhara (Giappone, 15′)

Una sinfonia surreale e assordante sulla fine dell’umanità, in cui a guidare lo sguardo è una bambina, che percorre strade desolate assieme ad una lontra di fiume, un Kawauso, considerata estinta nel 2012 e animale mitologico nel folklore giapponese.

Il cortometraggio animato realizzato da Akihito Izuhara e presentato alla scorsa Berlinale ha un tratto leggero, che ricorda i segni di una matita su un foglio, e racconta della conclusione di un tempo, a cui un altro si sostituisce, come per magia, scavalcando gli errori degli uomini e il loro processo di autodistruzione. Dove il kawauso sembra un animale guida pronto a mostrare un nuovo cammino, la bambina è il simbolo di una nuova generazione che non vuole ascoltare il rumore del declino. Kawauso è favola contemporanea che trova il suo lieto fine nella speranza di un nuovo mondo, dopo aver mostrato l’indicibile volto della distruzione.

Four holes di Daniela Muñoz Barroso (Cuba, 19′)

Four Holes nasce dal desiderio di ritrarre le abitudini di José, uomo anziano con la passione per il golf, che trova nelle sua vita attuale tutto ciò che può desiderare, senza volere nulla di diverso. L’incontro tra regista e protagonista è empatico e a tratti divertente, i due sono legati da simili problematiche di udito, e questo crea dei malintesi di comprensione, ma soprattutto un intesa colma di tenerezza e considerazione, dentro e fuori le riprese.

Lo stile di Daniela Muñoz Barroso è originale e sperimentale: mette in scena il ricordo di un passato, ma anche gli scenari del presente, i rumori e i colori, gli spazi in cui un uomo carismatico come José trascorre le sue giornate scandite da giardinaggio, golf, sport da guardare in TV. Mostra le sue foto, quelle del servizio militare nel Sahara, si sofferma su alcuni scatti, felice di quel passato che lo vede giovane. Adottando una comunicazione che fa del cinema nel suo divenire il tratto distintivo, la regista documenta una vita in pochi minuti, il tempo di fissare una giornata di sole, il suono delle palline, la voce di José.

Silvia Pezzopane

The Silence of the Iron di Mariana de Melo (Brasile, 15′)

In questa elegia sull’infanzia perduta si mescolano la storia dello stato brasiliano del Minas Gerais, e dello sfruttamento forsennato e travolgente delle sue risorse minerarie, e i ricordi della narratrice. Il suo racconto disegna un paese scomparso, l’apice del progresso del Brasile nello sfruttamento dei giacimenti minerari ma condotto con un’avidità tale da spazzare via le montagne, prosciugando le vene dell’America Latina.

Emerge qui la distopia del metallo, che da montagna rumorosa e ricca di vita diventa memoria flebile di pochi e materiale silenzioso di molti. Eppure c’è molto colore nei ricordi che ascoltiamo; il fervore carnevalesco e cromatico del Brasile del boom, grande e terribile. La storia diventa così una prosa lirica di racconto e denuncia che le scene dipingono con grazia sublime, dove i materiali di repertorio si alternano con sequenze allegoriche che le parole fanno brillare di una luce chiarificatrice.

La forza della grande letteratura brasiliana e sudamericana, quella che sa unire triste cronaca a intima magia, prorompe in questo canto per la Terra sfregiata dall’uomo.

The Silence of the Iron
The Silence of the Iron

Ovejas y Lobos di Alex Fischman Cárdenas (Perù, 17′)

In un Perù lunare, martoriato dalle efferatezze del Sentiero Luminoso, Rosa (Silvia Majo) è una madre alla ricerca del proprio figlio, fuggito di casa in seguito a una discussione. In questa tragedia biblica, eterna ma anche puntuale, entriamo dentro un Paese devastato dalla brutalità della guerra che macella come pecore i civili inermi.

La musica, delicata e quasi metafisica, materializza spazialmente il vuoto profondo delle valli e l’animo straziato ma anche risoluto di Rosa. Il Perù dipinto dalla fotografia è gelido e netto, un luogo dove anche i colori più accesi di paesaggi e interni non scaldano, non celebrano nulla ma chiarificano la tremenda situazione vissuta dal Paese nel conflitto armato interno che lo ammorba dagli anni ‘80. La regia si concentra su queste persone, tristi anime che vanno avanti attraverso la grande e infestante paura e la minuscola ma tenace speranza.

È una storia intima di conflitto tra genitori e figli, ma anche enorme, di quelle capaci di spalancare all’occidente una porta sul passato, sul presente e sul futuro di una intera nazione e del suo popolo.

Francesco Gianfelici

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