Arriva in sala, dopo una lunga e travagliata gestazione, Olga, l’opera prima del giovanissimo Elie Grappe, classe 1994. Il cineasta in passato si era ritagliato un ruolo come casting director nell’apprezzato sci-fi franco-svizzero Particles di Blaise Harrison, presentato a Cannes 2019 sotto la Quinzaine des Réalisateurs.
Franco-svizzera è anche la produzione di questo suo battesimo col fuoco, un dramma sportivo dai significativi risvolti politici, che ha per sfondo i moti di Euromaidan, iniziati nel novembre 2013 e culminati a febbraio 2014 con gli spari nella Piazza dell’Indipendenza; snodo cruciale della storia dell’Europa orientale, da cui andrà a sedimentarsi una crisi geopolitica irreversibile, traboccata il 24 febbraio 2022 con l’aggressione russa e la conseguente guerra di confine.
Non solo sport, un retroterra politico
È proprio il conflitto russo-ucraino ad aver accompagnato l’uscita di Olga, la cui lavorazione era stata parzialmente compromessa dalla pandemia; complice il lockdown, Grappe si era infatti visto costretto ad interrompere le riprese, ritardandone tanto l’editing quanto la distribuzione. Tra rallentamenti e lunghe rincorse, la realizzazione si è rivelata una strada lunga e impervia, se si pensa solo che l’autore approntò il primo copione da ventiduenne, per vedersi poi dietro la macchina da presa a ventisette anni.
Inutile essere elusivi, la storia in questo senso è esemplare: come dimostrano icone come Jesse Owens, quando nelle Olimpiadi berlinesi del ’36 sfidò la mistica suprematista del nazismo, inanellando ben quattro medaglie d’oro, lo sport è anche e soprattutto politica. A questo assioma sembra pienamente accordarsi l’opera del portentoso franco-svizzero, che alterna un taglio realistico e asciutto a ritmi di scrittura dinamici; un amalgama che però non sempre si rivela convincente, a dispetto degli ottimi propositi e della mirabile intraprendenza registica messa in luce.
La storia, un conflitto non confinabile
Protagonista della vicenda è la ginnasta adolescente Olga (Anastasia Budiashkina), prossima ai campionati europei preliminari alle Olimpiadi. La routine della quindicenne ucraina, nonché il suo talento, sta per essere minata dagli attriti che lacerano il suo paese: ci troviamo infatti ai prodromi delle tensioni civili dovute alla leadership dell’allora Presidente filorusso Viktor Yanukovych; venuto meno alle politiche di avvicinamento all’Unione Europea sospinte nel corso del suo mandato, il capo di Stato ha tesaurizzato il legame con l’oligarchia putiniana, innescando insorgenze e scontri in piazza, destinati a perdurare per quattro estenuanti mesi.
Favorita dalla doppia cittadinanza elvetica del padre, Olga si trasferirà per l’occasione in un istituto svizzero, in cui potrà continuare ad allenarsi in vista dell’imminente competizione che l’attende. La sua tempra le consentirà di entrare nel Centro nazionale di sport svizzero, grazie a cui potrà gareggiare con la squadra nazionale. Nel frattempo, nel suo paese si avvicendano notizie allarmanti: a Kiev le proteste sono sfociate nella cosiddetta Rivoluzione della Dignità, teatro di raduni e sommosse sempre più aspre, di cui suo malgrado sarà coinvolta la madre, una giornalista d’inchiesta presa in quei giorni a raccontare gli sviluppi delle insurrezioni.
A quello già in corso nella sua terra natia, si frapporrà in Olga un doppio conflitto, quello interiore. Sarà infatti scissa tra l’impegno agonistico dei campionati europei, dove dovrà misurarsi anche con avversari russi detenendo però la tuta svizzera, e l’impulso a rimpatriare quanto prima per poter sostenere i suoi cari e il suo paese in una fase più che mai delicata.
Il film, un debutto ambizioso con qualche riserva di stile
Vincitore del Premio SACD alla Semaine de la Critique di Cannes 2021, l’opera di Grappe si propone senz’altro come un esordio registico dal grande mordente stilistico, e dall’indubbia ambizione sul piano tematico.
Raccontare la lotta per la sovranità nazionale e l’affrancamento politico attraverso lo sport è un’utile lente per esplorarne le implicazioni traumatiche a livello individuale e collettivo. Da considerare, oltretutto, l’interconnessione quasi adesiva tra l’interprete e la protagonista. Come la sua “omologa” su grande schermo, anche Anastasia Budiashkina è infatti un’atleta professionista nella vita reale; aspetto che impreziosisce la messa in scena, rendendola credibile e funzionale alla narrazione.
Sapiente è inoltre l’uso della distanza sul piano dello script. La trama non si limita a raccontare una mera lontananza “fisica”, quella tra Olga e il suo paese, e l’annesso senso di impotenza che ne deriva davanti alle torsioni civili che vanno ad animarsi. Si ripercorre di fatto la storia di una lontananza anche e soprattutto emotiva, contrassegnata dall’incomunicabilità sociale, che innerva gran parte della permanenza della protagonista in Svizzera. In una sequenza assai emblematica, neanche i nonni paterni svizzeri sembrano voler cogliere i motivi delle rivendicazioni ucraine, vale lo stesso per l’allenatore e le sue coetanee sportive, inizialmente diffidenti alla sua presenza in squadra, e poi sollecite a spronarne la prestazione.
Rimane difficile sbilanciarsi sull’efficacia del lungometraggio nell’insieme, e convincersi che altalenare più registri, tra cui anche quello filo-documentaristico, possa rendersi una formula pienamente persuasiva (non poche sono le sequenze in cui gli inserti di repertorio, dedicati alla crisi di quegli anni, vanno a compenetrarsi con il girato effettivo, spesso esautorandolo). Scelte estetiche queste ultime talvolta discutibili, che sfociano in una struttura didascalica e forse troppo “scritta’” come la lunga carrellata finale dai toni cromatici caldi e accentuati (in contrasto con il vitreo inverno svizzero del primo minutaggio).
Quello di Olga resta tuttavia un equipaggiamento, formale e diegetico, del tutto meritorio, avvedutamente incoraggiato con la candidatura ai Premi Oscar 2022 come Miglior Film Internazionale in rappresentanza del cinema svizzero.