Occupied City, documentario di Steve McQueen. Courtesy of MUBI
Occupied City, documentario di Steve McQueen. Courtesy of MUBI

La voce narrante di Melanie Hyams (nella versione inglese) accompagna lo spettatore per un viaggio di quattro ore attraverso la storia e i luoghi di Amsterdam, il suo tempo e il suo spazio. Occupied City racconta infatti l’occupazione della capitale dei Paesi Bassi da parte dei soldati nazisti, al tempo stesso però mostra la città contemporanea, nei suoi cambiamenti, nelle sue evoluzioni.

Ogni punto sulla mappa, ogni indirizzo ha una storia da raccontare ed è ciò su cui si basa in questo percorso topografico che procede per associazione di parole e immagini.

Tratto dal romanzo Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945 di Bianca Stigter (moglie del regista), Occupied City è a tutti gli effetti un atlante, un insieme di storie, nomi, tragedie che il regista sceglie di riportare alla memoria.

Ad accompagnarne la successione è un flusso continuo di riprese della città: palazzi, vie, quartieri, piazze. Esterni, interni, campi lunghi, totali, spazi vuoti e spazi pieni che lavorano sull’immaginazione dello spettatore, sulla capacità di costruire senso anche dove non c’è alcun indizio esplicito. Forse troppo azzardata, a questo proposito, la volontà di girarlo durante i lockdown del 2021.

Se da un lato la coincidenza permette di riprendere una città spettrale, ferita e sofferente, che enfatizza le storie della voce narrante, dall’altro si corre il rischio di un’associazione di idee estrema, bizzarra, forse al limite di un complottismo, che non esiste nelle intenzioni iniziali del regista, ma che non si può eliminare una volta avviato il processo di associazione libera di idee che è propria della videoarte. Un rischio che McQueen ha preferito correre pur di realizzare il progetto così come lo aveva in mente: un fiume in piena che travolge, che stimola pensieri e domande.

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