Noi, Jordan Peele 2019

Solo due anni prima, nel 2017, il talento di Jordan Peele era esploso in quello che ancora oggi rimane, anche secondo la Guild Award degli autori cinematografici, il film meglio scritto degli ultimi venti anni: Scappa – Get Out. Una sceneggiatura serrata, in grado di coniugare la sottile comicità di Peele e il cinema di genere.

La nuova ondata del black cinema inizia proprio da lì, dall’Oscar a Get Out e dal rinnovato interesse per i temi di cui si fa portatore in una chiave innovativa e forse irripetibile, tanto che lo stesso Peele non riesce, o non vuole, ricalcarla con la sua opera seconda.

Sceglie per esempio, questa volta, di muoversi dentro il canone dell’horror più classico, sfruttandone l’estetica e la struttura. Noi inizia infatti come una home invasion, con i cloni che aggrediscono il mondo di sopra. La tensione man mano cresce e si generalizza verso un contesto sempre più ampio rispetto alla casa iniziale dei protagonisti: il personale diventa sociale. Aspetto che è molto chiaro nello sviluppo della storia di Adelaide e la sua Ombra, Red, entrambe interpretate da una straordinaria Lupita Nyong’o.

In questa coppia confluisce il conflitto fra la coscienza di classe e la coscienza di razza (usando una traduzione impropria del concetto di race dalla lingua inglese), declinato sempre dalla prospettiva afroamericana, in cui è radicata l’idea che l’agio borghese sia spesso simbolo di assimilazione e tradimento nei confronti delle condizioni di diseguaglianza della maggioranza discriminata.

Adelaide e Red sono corpi identici che condividono una sola anima pur essendo separati. Sono l’incarnazione dello sdoppiamento tra african e american e del conflitto interno e irrisolvibile fra le due identità. Jordan Peele lascia però questa riflessione come sottotesto, preferendo la costruzione di un grande spettacolo prima di tutto. Il risultato è un mondo ancora più complesso rispetto a Get Out, popolato di visioni, terrori ancestrali e inquietanti conigli bianchi al di là degli specchi.

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