«Ci sono dei momenti di grande emozione, questo è uno di quelli», afferma il doppiatore Dario Oppido, nuovo affascinante villain della Disney, con la sua voce profonda, rotta da un piccolo tremolio. È il 15 novembre e il cast di voci italiane di Mufasa – Il re leone ha appena assistito, insieme alla stampa, all’incontro con il regista del film Barry Jenkins, a Roma. Ma non è solo per questo.
È per tutto ciò che Il re leone rappresenta e ha rappresentato negli ultimi trent’anni: per il cinema, per l’animazione, per il doppiaggio stesso. Non è sbagliato dire che da qui in poi, per chiunque ne abbia fatto parte, si traccia un punto di non ritorno: si entra nell’Olimpo della Disney.
L’emozione, dunque, è più che plausibile, oltre che per Oppido anche per Edoardo Stoppacciaro (il giovane Rafiki), Riccardo Suarez Puertas (Zazu) e soprattutto per Luca Marinelli (Mufasa), Alberto Boubakar Malanchino (Taka) ed Elodie (Sarabi), le tre stelle di punta dell’adattamento italiano.
Mufasa, da 30 anni protagonista
Dal 1994 Il re leone è parte inseparabile della nostra cultura, dei nostri ricordi. Nella nuova versione di Barry Jenkins – che è una storia totalmente inedita – c’è qualcosa di quel racconto che ancora vive in noi. Non è stato differente anche in cabina di doppiaggio, afferma Luca Marinelli rispondendo a una domanda di FRAMED.
«Penso che sia sia stata da parte di tutti e tutte noi, naturalmente, un’adesione al prodotto che abbiamo visto. Ci siamo lasciati ispirare dal film però sicuramente, per quanto mi riguarda, mi sono ispirato molto ai ricordi del Mufasa che conoscevo. Mi ha anche emozionato tanto il fatto di poter fare la versione giovane di quella che abbiamo visto trent’anni fa. Mi ha emozionato tantissimo quel che ricordo del grandissimo Vittorio Gassman. Perché se qui parliamo appunto dell’Olimpo Disney, nel mio personale Olimpo, lui è certamente tra le divinità».
Gassman, doppiatore italiano di Mufasa nel 1994, «come in ogni interpretazione, passava dal drammatico al comico in una maniera meravigliosa». Del suo Mufasa «ricordo moltissimo la grande impressione che avevo da bambino nei momenti molto austeri, quelli in cui veniva fuori l’aspetto del leader di un gruppo, accanto a momenti di grande dolcezza e di grande sensibilità. Così come i momenti in cui si interroga sul suo ruolo di re, guardando al gruppo: sto facendo bene o non sto facendo bene? È questo ciò che ho tentato di portare dentro il personaggio, pur rimanendo aderente al lavoro che è stato fatto. Ed è ciò che mi ha emozionato di più».
Se Mufasa potesse parlare al “sé bambino”…
Nell’arco di tempo tra il 1994 e il 2024 è nata e cresciuta un’intera generazione per cui Il re leone fa ancora parte dei ricordi di infanzia e adolescenza, e il cast non ne è escluso. Anzi, trovarsi dentro un’esperienza del genere, che attraversa il tempo restando eterna, porta anche a riflettere sul proprio legame con i 30 anni del Re leone, con il piccolo spettatore e la piccola spettatrice che si è stati.
«Al piccolo Edoardo che aspettava i titoli di coda di Il re leone per riconoscere le voci mi piacerebbe dirgli, “rafikianamente”, che andrà tutto bene», afferma Stoppacciaro. «È stato un grande viaggio per me, questo di avvicinamento a un personaggio dal grande fascino e dalla grande dolcezza. Irridente in una sua dimensione di profonda saggezza e di profonda comprensione del visibile e dell’invisibile, che lo porta ad avere sempre uno sguardo molto sereno e disteso, anche nei frangenti più catastrofici o apparentemente più irrimediabili».
«Solo l’idea di poter dire al me bambino che un giorno sarebbe potuta succedere una cosa del genere, forse mi avrebbe distrutto. Sarei imploso sul momento», aggiunge Riccardo Suarez Puertas. «Gli direi però soprattutto che anche se gli manca ancora la sicurezza, l’armatura che deve costruire nel tempo per stare nel mondo, ha già qualcosa dentro che gli dice di avere un ruolo, qualcosa da dimostrare, esattamente come il mio personaggio, Zazu».
… e se il cinema potesse sempre guidarci verso il Milele
«Quasi niente di quello che sta accadendo nella mia vita sarei riuscita a immaginarlo da bambina», prosegue Elodie Di Patrizi. «Mi sono sempre sentita un piccolo cucciolo di leone, ho sempre pensato che aggredire fosse il primo modo per difendersi, e mi fa molto sorridere ritrovarmi a fare qualcosa che in parte sento mi somigli. Sto imparando in realtà a gestire tutta questa paura di ciò che è esterno, di non essere all’altezza, di non essere abbastanza. E questo ruolo è arrivato probabilmente proprio in un momento di serenità e di comprensione dei miei limiti, li sto abbracciando».
Anche grazie al cinema, a cui Elodie riconosce la capacità di aiutare a capire se stessi, facendolo: «Il cinema ha un linguaggio incredibile. Ti dà la possibilità di essere empatico, di capire e scoprire gli altri, di scoprire te stesso attraverso gli altri. Per questo motivo in particolare è una strada che sto abbracciando, poi si vedrà, piano piano.
A proposito di capire e parlare a se stessi attraverso il cinema, Marinelli aggiunge: «In Mufasa si parla sempre di Milele, di andare verso il Milele che è una terra fantastica, che i personaggi trovano perché vogliono trovarla. Ecco, quindi al me bambino io direi: Vai verso il tuo Milele. Questa sarebbe la cosa più bella, che poi bene o male è qualcosa che ho fatto in una certa maniera, nella mia vita e nella mia carriera, però non l’ho fatto da solo. Come nel film, l’ho fatto assieme alla mia famiglia, assieme a colleghi, colleghe, questa è la cosa più bella».
Il re leone e la Disney: sogno e responsabilità
«Al bambino che guardava Il re leone in Vhs io vorrei dire di non avere paura e di andare avanti, che i sogni esistono, si possono realizzare e portano anche tantissime responsabilità», afferma Alberto Boubakar Malanchino. «Bisogna quindi avere anche una concretezza e una grande solidità nelle proprie ambizioni, in quello che si vuole fare. Io vengo un paese nella provincia di Milano, sono nato negli anni ’90, da una coppia interrazziale, avevo un sacco di cose abbastanza contro, nella mia carta d’identità iniziale. Invece sto riuscendo a confermare a me stesso, al me stesso del passato, che tante porte si possono aprire, sperando sia anche un elemento che possa dare forza a tante ragazze e ragazzi che vengono da condizioni più fragili o più particolari».
«So che ci sono ancora tante vette da scalare, ma se potessi tornare indietro, più che a me stesso – dato che in qualche modo sono sempre riuscito a proiettarmi nel futuro, anche con mille sacrifici – direi forse qualcosa ai miei amici, quando erano più piccoli, perché ho visto tante persone che non sono riuscite a trovare una loro Milele personale, forse per questioni di lealtà verso qualcosa, qualcuno, una società. Non sono mai riusciti a fare quel salto che poi è il salto all’età adulta».
Parole, queste di Malanchino come di tutti gli altri protagonisti, che raccontano della vita stessa, non solo del film. Segno che questo nuovo Re leone ha già un messaggio importante, nelle sue premesse, perché unisce due tempi né troppo né troppo poco distanti, costringendoci anche a pensare a chi eravamo e chi siamo diventati in 30 anni. A chiederci se abbiamo iniziato a capire, o ancora no, il nostro posto nel cerchio della vita, tra il il passato (da cui impariamo a schivare i colpi) e il futuro (tra le stelle e gli orizzonti infiniti visibili dalla nostra Rupe dei re). Come insegna Rafiki, come insegna Mufasa.