C’è stato un tempo in cui l’apice di ogni cult cinematografico prevedeva categoricamente una corsa a rallentatore del protagonista, in fuga da un’esplosione di portata catastrofica. Dev Patel deve essere sicuramente a conoscenza (e fan) di questo genere di espedienti narrativi, perché pur senza utilizzare la stessa tecnica ha fatto di tutto per ricrearne l’epicità nel suo debutto alla regia, Monkey Man, nelle sale italiane dal 4 aprile.
Monkey Man, la storia
Un ragazzo senza nome (si fa chiamare Bobby o soltanto Monkey Man), interpretato da Patel stesso, cerca vendetta per la brutale morte della madre e la distruzione del suo villaggio. Sfida quindi l’elite corrotta della megalopoli indiana in cui vive. Una trama ridotta all’osso, quella di Monkey Man, funzionale a ricostruire tutte le tappe fondamentali del viaggio dell’eroe: dal passato tragico fino alla alla sete di giustizia, passando anche per un classico momento di training montage stile Rocky ma soprattutto Disney, quello tra Hercules e il satiro Phil. Insomma, una serie di schemi chiari, definiti e ben riconoscibili per permettere allo spettatore di concentrarsi per poco meno di due ore solo ed unicamente su una sequenza visivamente infinita di pugni, calci, accoltellamenti e (tanta altra) violenza.
Un puro action movie
Pur con qualche sfogo comico improvviso – che in parte omaggia il cinema di Jackie Chan e in parte lo si aspetta, con Jordan Peele in produzione, Monkey Man è un film action duro e puro, che evita giochetti psicologici o sotterfugi di trama alla Bourne Identity e si concentra solo su estenuanti combattimenti corpo a corpo (un sacco di botte) estremamente coreografici e creativi nell’esecuzione.
Avvicinandosi molto a John Wick (citato, peraltro, anche nel film stesso e nella locandina), il debutto di Patel alla regia prende la coraggiosa strada del non voler davvero insegnare nulla, del non cercare di indorare la pillola con qualche morale di fondo o propinando il classico “perdona e dimentica”. Si concentra su una realtà (tanto del protagonista quanto dell’agglomerato sociale in cui si muove) colma di rabbia e insofferenza, abituata a prendere colpi su colpi aspettando solo il momento giusto per darli indietro, con tanto di interessi.
A questo è funzionale un uso specifico della macchina da presa da parte di Patel, soprattutto nelle scene di combattimento, dentro e fuori dal ring dell’Uomo scimmia: una macchina iper-mossa ma pienamente consapevole del cinema, sia indiano sia splatter, che l’ha preceduta.
L’India: sullo sfondo, dentro e intorno
La trama estremamente semplice lascia trasparire, comunque, un lavoro di ricerca particolare da parte di Dev Patel – che è autore anche del soggetto e della sceneggiatura – sul contesto del film. Pur trattandosi, infatti, di un’evidente produzione statunitense Monkey Man può vantare l’essere riuscito ad ambientare un action movie sullo sfondo della cultura indiana.
Lo stesso Monekey Man è una rappresentazione del dio Haruman, protettore del popolo. Se si prova a spostare l’attenzione dalla pioggia di denti e sangue che costituisce il film, tuttavia, gli aspetti più interessanti del film sono anche quelli meno sfruttati dalla sceneggiatura: dalle enormi disparità sociali accennate in cui è incastrata la società, tra ricchi sempre più ricchi e padroni di ogni cosa e poveri costretti a vivere ai margini, tasselli invisibili di un mosaico caotico e variegato.
Monkey Man, al contrario di Scappa Get Out (opera prima del produttore Peele), non sceglie però di percorrere la via politica. Nemmeno, o nel del tutto, quando emerge in maniera inaspettata e peculiare la presenza della subcultura degli hjra, composta da persone che in India si identificano come transgender o “terzo sesso”, storicamente relegate ai margini della società.
Una racconto che sorprende non solo perché amplia la visuale del pubblico occidentale ma perché offre anche un momento di distensione nel film, oltre che almeno un sorriso di fronte all’allenamento in stile Karate Kid impartito da questa comunità al protagonista.
Cosa aspettarsi da Monkey Man
Nonostante si una produzione Monkeypaw (Get Out, Noi, Nope, Lovecraft Country, Candyman), Monkey Man non è affatto un horror, è un revenge-action movie che non stravolge i criteri di ciò che consociamo come tale. Fa strano, forse, vedere che lo stesso ragazzino sensibile di The Millionaire, il teppistello di Skins e il risoluto orfano di Lion siano la stessa persona che ora è capace di scrivere e dirigere cruenti combattimenti a mani nude tra dozzine di killer, e farlo con stile. Una svolta che non avevamo visto arrivare ma che, in tutta onestà, forse aveva bisogno di questo grande ritorno sullo schermo.