Il cinema di Roberta Torre, da qualche tempo a questa parte, porta avanti un discorso sui ricordi. Ma forse lo fa da sempre, dall’opera prima Tano da morire (1997) con cui si rivelò alla Mostra di Venezia e fece incetta di riconoscimenti: lì ad essere rievocata erano la vita e le gesta di un mafioso, deformate e demitizzate radicalmente tra le maschere di un musical postmoderno e nerissimo. Oltre venticinque anni dopo, in Mi fanno male i capelli (in concorso a Roma 2023, premio come miglior attrice alla protagonista Alba Rohrwacher), in gioco c’è sempre il rapporto col passato, e il ribaltamento della gerarchia tra realtà e rappresentazione. Attraverso, però, l’eredità di una delle massime artiste italiane del grande schermo, Monica Vitti.
Non è tuttavia un biopic, né un documentario sulla grande mattatrice scomparsa nel 2022, questo lungometraggio refrattario alle definizioni, ai confini e alle regole dei generi cinematografici. Le immagini e le battute dei grandi titoli eternati (anche) dal talento della diva, tra il bianco e nero de La notte e i colori del Deserto rosso (da cui deriva il titolo del film di Torre), informano la storia (che “storia” non vuol essere, almeno non fino in fondo) di un’altra Monica. Quella, interpretata da Rohrwacher, che, come fu per Vitti, sta perdendo la memoria. E trova nell’attrice e nei suoi personaggi un’amica con cui parlare, e persino l’alter ego in cui perdersi, coinvolgendo anche il compagno Edoardo (Filippo Timi), alle prese nel frattempo con la quotidianità fatta di problemi economici e strozzini che si prendono la loro casa.
Perché, ancora una volta, la regista e sceneggiatrice non si dimentica del mondo fuori dai nostri sogni, piuttosto lo mette in cortocircuito con questi ultimi, con la nostra fantasia capace di ridisegnare e rivestire (qui con i costumi “citazionisti” di Massimo Cantini Parrini) la realtà e le ferite che ci lascia addosso, aprendovi spazi poetici e politici di liberazione. Come il coro transgender de Le favolose, anche Monica oppone alla società crudele (e, in questo caso, alla natura matrigna di un male che fa lentamente dissolvere tutto) la trasfigurazione di questa in spettacolo. E della sua stessa identità in un’altra, inevitabilmente precaria e passeggera ma non meno autentica, nutrita com’è dalla verità profonda delle finzioni, cinematografiche e non solo.
Per questo è vano e fuorviante, in Mi fanno male i capelli, cercare la verosimiglianza mimetica della messa in scena, per esempio nei dialoghi con la voce fantasmatica di un Alberto Sordi che entra-esce dalle proiezioni di Monica, o la progressione e il compimento della vicenda secondo i canoni narrativi tradizionali. Gli artifici, al contrario, lasciano trasparire la loro natura, perché in questo cinema raro, anticonformista e personalissimo non ci si maschera per somigliare a qualcosa di già visto, ma per diventare qualcosa di nuovo.
Che strappi momenti di tenerezza (come quelli tra Monica/Rohrwacher e Edoardo/Timi) alla solitudine, di eversivo piacere all’austerità delle norme, di poesia lieve e malinconica all’insostenibile pesantezza di essere. Per continuare, quando tutto sopra e intorno a noi ci dice che dovremmo solo tacere e dimenticare, a esprimerci, a significare. A esistere.
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