Quello che doveva essere un progetto cinematografico totale (e totalizzante), in una cornice utopistica di speranza e magnificenza, diventa uno stupefacente fallimento che si perde nei labirinti del desiderio, accantonando l’idea di compiutezza.
Dopo essere stato presentato in anteprima al 77° Festival di Cannes in competizione per la Palma d’oro, Megalopolis arriva al cinema in tutta la sua grandezza, ma anche con tutte le mancanze che lo rendono enormemente imperfetto. Ispirato dalla visione del mondo di domani, Coppola si perde nella rappresentazione di ieri, perseguendo un unico obiettivo: fare il film che vuole, esattamente come vuole. Il risultato è un’esperienza visiva spesso delirante, sconclusionata, con una scrittura che risulta a tratti frammentaria e confusa, dove una certa ingenuità tematica prende piede senza lasciare spazio a una rappresentazione più consapevole.
In occasione della masterclass tenutasi durante la preapertura della Festa del Cinema di Roma 2024 però il regista afferma ciò che chiunque abbia visto il film (anche chi non riesce a criticarlo dato l’amore immenso per Francis) ha pensato. Alla domanda riguardante l’ipotetico pubblico a cui pensava sarebbe stato indirizzato il film risponde: Megalopolis l’ho fatto per me.
La trama di Megalopolis
New York come Roma, il declino della società richiama la caduta di un impero; ci troviamo a New Roma. In una storia che ci viene presentata in forma di favola, due uomini si contrappongono: Cesar Catilina (Adam Driver), geniale architetto e scienziato con una rivoluzionaria visione, e Franklin Cicerone (Giancarlo Esposito), sindaco corrotto attaccato al passato. Nel mezzo Julia (Nathalie Emmanuel), la figlia di Cicerone, che affascinata dalla prospettiva di Cesar se ne innamora, accogliendone le contraddizioni e la genialità.
Il tempo continua però a tormentare Catilina, i minuti, i secondi, i secoli. Basteranno a realizzare un futuro diverso? Come un filosofo del cambiamento si pone così tra la crisi di non riuscire e l’inebriante possibilità di farcela.
Cosa funziona e cosa delude
Quale sarà il destino dell’umanità? Le città saranno forgiate con il megalon, il materiale futuristico realizzato da Catilina, o rimarranno d’acciaio e cemento, nascondendo così le bugie, gli scandali, la disparità sociale e l’infelicità?
A destare qualche incomprensione in Megalopolis è l’entusiasmo palpabile della visione del regista che sovrasta la possibilità di una visione contemporanea, quella che ci si aspettava viste le tematiche trattate. Fortemente voluto (ha infatti richiesto un autofinanziamento di 120 milioni di dollari e la volontà di non scendere a compromessi), sia nella forma che nei contenuti, il film drammatico e fantascientifico di Coppola vuole mostrare tutto, con la forza epica di un kolossal in grado di smuovere flussi di idee e scatenare rivoluzioni, rimanendo però scomodamente impelagato in un caos visivo e concettuale che ne sminuisce l’impatto.
L’idea di Megalopolis nasce anni fa, si compone dettaglio per dettaglio, è un grande mosaico ricco di ispirazioni, come se Coppola l’avesse costruito tassello dopo tassello. Compendio di intenzioni e desideri, l’opera è la concretizzazione del sogno di un regista, ormai ottantacinquenne, che con il candore di bambino mette in scena la possibilità di un’alternativa al declino, al tempo stesso però infarcendola di simbolismi, riferimenti, complesse scissioni narrative. Non è solo la morale decisamente ottimistica a deludere, ma anche la sovrapposizione costante di elementi e personaggi mai realmente approfonditi.
Dove i rimandi alla storia romana, e in particolare alla congiura di Catilina, sono onnipresenti ma superficiali, e l’obiettivo di costruire una città utopica alla portata di tutti è raccontato in un modo che oscilla tra lo schizofrenico e lo stucchevole, l’interpretazione di Adam Driver riesce a emergere e a lasciare il segno. Il suo Catilina è l’elemento più forte e contemporaneo dell’intero film, l’unico personaggio a mettere veramente in crisi lo spettatore, poiché per primo inquieto e frammentato.
Estetica fuori tempo
L’esperienza visiva di Megalopolis è proiettata verso un’estetica che vuole dichiararsi sperimentale, ma che più che mai si rifà al passato, e a un genere di film che già 20 anni fa ci parlavano di futuro. Coppola non ha paura di esagerare con gli split screen, e con gli effetti visivi datati per mostrare il megalon e le sue capacità.
La fotografia di Mihai Mălaimare Jr. (The Master, Jojo Rabbit) impreziosisce un racconto che però già da subito si mostra ancorato al passato, e l’aspetto ovattato della città e dell’interiorità di Catilina si spezza continuamente a favore di una serie di espedienti che partecipano solo a gonfiare ancora di più l’obiettivo, senza però raggiungerlo davvero.
Solo l’uso del colore, pieno, saturo, in alcuni momenti riporta a un passato diverso e molto più interessante di quello dell’avvento del digitale: sul volto di Catilina ritroverete il cielo dietro a Ponyboy che recita Frost, o le tinte piene e significanti della Transilvania di Dracula.
In breve
Film testamento colmo di magnificenza visiva, esperienza psichedelica e sovrapposizione di intenti: Megalopolis è tutto e vuole raccontare il tutto, ma il cortocircuito tra idea e realizzazione è inevitabile, e quello che doveva essere il film dell’anno rimane una favola incompleta e sconsideratamente sospesa, dove neanche il cast riesce a uscire totalmente da una serie di carenti personaggi mai approfonditi veramente. Se da una parte è commovente assistere a una dichiarazione d’amore per l’umanità così volutamente pura, dall’altra il film di Coppola rimane ancorato a una rappresentazione fuori tempo, una favola appunto, che non riesce a bucare lo schermo (o il cuore di chi sceglie di prestarvi attenzione).
Se non lo ricorderemo per la retorica, sicuramente lo apprezzeremo per lo sprezzante romanticismo, influenzato dalla fantascienza di Wells, dai testi David Graeber e di Goethe, e da pensatori, filosofi e intellettuali presi come riferimento per un’alternativa ideale al presente. Apprezzare o meno il film significa scegliere tra uomo e regista, perché dove l’uno ha espresso tutto se stesso, l’altro ha perso una nuova occasione di lasciare il segno.