A furia di etichettare sempre tutto e schierarsi continuamente in fazioni opposte, si rischia di perdere il senso e la bellezza delle cose, come è accaduto a Malcolm & Marie.
Il film di Sam Levinson è stato definito “inutilmente pretenzioso”, maschilista, persino disgustoso per la differenza d’età tra i protagonisti. Ha spaccato in due la critica, e forse per questo non ha ancora ricevuto l’attenzione sperata nella stagione dei premi. Eppure rimane un grande film. Un film di cui cui ho già tessuto le lodi (qui), ma che adesso intendo difendere apertamente, contestando una per una le accuse mossegli contro.
Malcolm & Marie è un film volutamente pretenzioso
Il fatto che Malcolm & Marie sia su Netflix non significa che sia automaticamente un film facile, da guardare sul divano, mentre mille altre cose distolgono la nostra attenzione. Netflix l’ha semplicemente acquistato dopo il Toronto Film Festival, per salvarlo dal buco nero in cui sono finiti molti altri titoli interessanti a causa del Covid. È un film su Netflix, non di Netflix! E già questo dovrebbe servire a ricontestualizzarlo, ma voglio aggiungere alcune recenti parole di Scorsese a riguardo, pubblicate su Harper’s Magazine. Sulle piattaforme streaming tutto è sullo stesso livello. Sembra una cosa democratica, ma non lo è. I suggerimenti dell’algoritmo sono fatti in base al “contenuto”. E questo cosa c’entra con l’arte [la forma] del cinema?
Malcolm & Marie è inoltre un film sperimentale, unico nel suo genere. Si tratta infatti del primo film girato in pieno lockdown negli USA, nelle ultime due settimane di giugno. Ha di conseguenza un’aura storica, ineliminabile dal contenuto in senso stretto. La costrizione fisica dei due personaggi all’interno della casa isolata rispecchia quella della troupe (che risiedeva in parte lì durante le riprese) e ovviamente quella internazionale.
Il metacinema è già nelle premesse su cui questo film è stato girato. Allora la sua pretenziosità è dovuta proprio al riconoscimento del suo stesso status di simbolo. Simbolo di un cinema che ci manca quotidianamente, che resiste e che parla di se stesso. La struttura metatestuale è infatti tanto importante quanto lo scontro verbale tra i protagonisti. È evidente nella scelta di girare in pellicola 35mm e in bianco e nero, come i grandi classici hollywoodiani. Ed è evidente anche nel fatto che Malcolm sia un regista, e che con Marie parli tanto del suo film quanto di questo che vediamo sullo schermo.
Non tutto quello che viene detto e recitato, tuttavia, è da prendere alla lettera. Proprio grazie al cortocircuito tra le parole scritte da Levinson e l’attore che le incarna, ogni affermazione è contemporaneamente ribaltata nel suo opposto. Soprattutto sul frangente politico.
Ars gratia artis, l’arte che vive solo di se stessa è un mito
L’arte nasce sempre da un’idea, da un messaggio, anche quando il messaggio è semplicemente il rifiuto dello stesso. L’arte per se stessa è un mito quasi irraggiungibile, poiché nasconde sempre una dichiarazione di intenti, di qualsiasi genere. Affermare il contrario è, come minimo, un’operazione ingenua.
In questo film, Malcolm è un regista nero che ama i film politici, come ci rivelano le parole di Marie, anche se crede di non farli. Ciò che non accetta è in realtà la strumentalizzazione della critica bianca, secondo cui ogni black film è un film politico. Questo equivoco nasce da un concetto che negli USA è noto come burden of representation, il fardello della (giusta) rappresentazione afroamericana. Perché sin dalle origini del cinema statunitense (The Birth of a Nation), gli afroamericani sono stati sistematicamente umiliati e sminuiti dalla rappresentazione audiovisiva. Alcuni autori, come lo Spike Lee citato nel film, sentono quindi da un lato il “dovere” di restituire un’immagine corretta dell’esperienza e della vessazione afroamericana. Dall’altro vogliono solo esprimere la propria arte.
Le due cose sono strettamente connesse e sono complementari. Non sono tuttavia imprescindibili una dall’altra. I black film, allora, sono politici solo nella misura in cui decide il loro autore. Lo sono nel momento in cui rompono volutamente gli schemi per creare un dibattito. E lo sono sempre attraverso la prospettiva dell’attivismo, motivo per cui nel film si cita proprio Angela Davis in queste scene.
Malcolm & Marie, tuttavia, è un ibrido. Non è scritto né diretto da afroamericani, però Zendaya e John David Washington ne sono produttori esecutivi, oltre che protagonisti. C’è molto della loro esperienza nel prodotto finale.
Nel momento stesso in cui Malcolm inveisce contro il cinema politico, dunque, in realtà lo afferma. In realtà lo ama. Non tollera semplicemente che venga definito tale da un occhio esterno al suo ed estraneo all’esperienza narrata.
Forma e contenuto in Malcolm & Marie si intrecciano allora profondamente, fino a rendere difficile la distinzione. Per questo sì, è un film pretenzioso o meglio, apertamente ambizioso.
Il problema della critica contro John David Washington
Liquido subito la questione della differenza d’età. Zendaya al momento delle riprese aveva 23 anni, di cui 10 trascorsi nel mondo dello spettacolo. E ancor prima nel mondo della moda e della pubblicità. È arrivata l’ora di prenderla sul serio, come attrice e come imprenditrice, essendo anche la produttrice esecutiva del film. JD Washington, trentacinquenne al momento delle riprese e con molta meno esperienza sui set, ha ammesso più volte di essersi lasciato guidare da lei, e non viceversa.
Marie è il personaggio perfetto, per età e collocazione, nella carriera di Zendaya in questo momento. Al contempo, non è corretto screditare la grande performance di Washington per i 12 anni di differenza anagrafica. O peggio, per la lettura che se ne fa.
Se c’è una cosa chiara e incontrovertibile, in Malcolm & Marie, è che l’uomo non ha mai il predominio sulla donna, né anagrafico, né ideale. Né crede di averlo in un’ottica di identità di genere. La guerra tra i due avviene su un piano prettamente psicologico, quello tra un soggetto narcisista e uno borderline.
Il grande impatto visivo dei due attori – e dei nostri sottotesti culturali – ci portano a sovrapporre queste due categorie al maschile e al femminile. Ma non è così.
Non deve trarre in inganno l’iniziale posizione di potere di Malcolm. La perde molto presto nel confronto con Marie, e il bello è che non ci sarà nessun vincitore. Marie attacca e ferisce quanto Malcolm, eppure il personaggio di Washington è stato definito l’incarnazione dello sguardo bianco-cis-etero-maschilista di Sam Levinson. In maniera del tutto infondata, aggiungo, se si parte dal testo filmico.
Innanzitutto perché se così fosse né Washington né Zendaya avrebbero accettato di diventare oggetto e veicolo del white gaze. Per tutto quel che ho già scritto. In secondo luogo perché Malcolm e Marie non sono persone, sono archetipi ed estremizzazioni di una relazione disfunzionale ma “da manuale”. Sono gusci e contenitori in cui, ognuno di noi può riconoscere tratti di sé, e dei propri errori relazionali, e imparare da essi.
Analisi psico(pato)logica di Malcolm e Marie
Per questa sezione ho chiesto consiglio a chi ne sa più di me su DSM e disturbi di personalità. Perciò grazie alla Dott.ssa Roberta Verbaro.
Inizio da ciò che il testo filmico dichiara apertamente: il narcisismo di Malcolm. È di questo che lo accusa Marie. È di questo che il pubblico si accorge sempre di più, senza che abbia a che fare con la sua identità di genere. Dimostra da subito i suoi tratti di grandiosità, nell’elogio a se stesso e nella continua critica di coloro che, a suo dire, non lo comprendono. Non mostra mai particolare empatia nei confronti del problema espresso da Marie. Anzi, reagisce alzando un muro di negazione e indifferenza, e ridimensionando la questione. Anche il perdono dei tradimenti di Marie, in questo senso, può essere letto come una mancata accettazione della propria inferiorità. Preferisce perdonare piuttosto che ammettere di essere sostituibile, o che un altro sia migliore di lui. Perdona pur di sentirsi superiore a Marie.
Da un punto di vista psico(pato)logico, in questo atteggiamento, possono identificarsi donne e uomini, di qualsiasi orientamento sessuale. Leggerci una guerra dei sessi sarebbe una forzatura.
Marie, d’altro canto, rappresenta tratti di un altro disturbo di personalità, il borderline, che con il narcisista fa scintille. È aggressiva, autolesionista, ex-dipendente con tendenze suicide. Incolpa spesso Malcolm, anche delle proprie decisioni, e non cambia idea nemmeno dopo i confronti più onesti e brutali con lui. Questo perché fa del gesto la persona, e dopo che Malcolm dimentica il fatidico grazie, nulla può distoglierla dal disprezzo che prova per lui. Inoltre soffre la paura dell’abbandono. Da qui quel I don’t need you but I love you di Malcolm, a cui lei non riesce a credere.
È ambivalente, fragile e forte al tempo stesso. In un certo senso è felice di svuotarsi per riempire emotivamente Malcolm. Ma ha bisogno che quel suo sacrificio venga riconosciuto e lodato per sentirsi esistere, in quanto persona. E per quanto piccolo, chiede uno sforzo che Malcolm non sa fare. Per questo in psicologia la coppia narcisista-borderline è una delle più intense e più autodistruttive.
Ritornando alla “pretenziosità” del film, questo aspetto è evidente anche nella scelta dei costumi. Malcolm rimane nel suo completo elegante per quasi tutto il film. È immutabile come la sua stessa immagine di sé. Solo alla fine, quando si “spoglia”, è pronto ad ascoltare le parole di Marie.
Lei, al contrario, cambia continuamente. È fiera e sprezzante nell’abito argentato, è nuda e indifesa nella vasca da bagno. Solo alla fine, anche lei, trova un giusto compromesso per incontrare Malcolm “a metà strada”.
Il finale aperto lascia a noi le conclusioni. E poco importa sapere come andrà a finire tra i due. Malcolm & Marie ci ha appena regalato un grande confronto, una coraggiosa “chiusura” emotiva, un modo di eviscerare il rapporto di coppia. Per provare a salvarlo o lasciarselo alle spalle. È un’operazione che va oltre il binomio uomo-donna. Certo, lo include, perché è questo che sono JD Washington e Zendaya. Vederla solo così, tuttavia, senza vedere tutto il resto, contamina soltanto il nucleo del film.