Vedere il nuovo film di un autore acclamato con una carriera quarantennale è un’esperienza che suscita sempre un po’ di ambivalenza. Da un lato ci sono un solido mestiere e un’estetica riconoscibile; dall’altro c’è la sensazione che parte dell’originalità originaria sia ormai perduta. Madres Paralelas è un ritorno a casa accogliente e malinconico con pregi innegabili, e qualche difetto che solleva alcune domande fondamentali.
Una domanda potrebbe essere dove passa il confine tra autorialità e maniera. Oppure fino a che punto la ripetizione di temi ed elementi visivi ci distolga dal percepire un impoverimento narrativo. E la garanzia di vedere un film “fatto bene” può bastare da sola a giustificarne la produzione e la fruizione? Per chi guarda: il cinema ha una funzione catartica o consolatoria, e a quali generi attribuiamo l’una o l’altra? Le risposte a queste domande sono necessariamente soggettive e plurivoche, ma sono quelle che dobbiamo farci per capire se Madres Paralelas sia o no un film da vedere.
La trama
Janis (Penelope Cruz) è una fotografa quarantenne di successo. Le capita di ritrarre per una rivista Arturo (Israel Elejalde), antropologo forense. Gli chiede aiuto per riesumare una fossa comune risalente all’inizio della guerra civile, poco distante dal suo paese d’origine: tra le persone uccise dai falangisti c’è anche suo bisnonno. Il rapporto tra Janis e Arturo, però, non rimane strettamente professionale.
Nove mesi dopo la troviamo in una stanza d’ospedale, in procinto di partorire e con una compagna di stanza di nome Ana (Milena Smit). Anche Ana come Janis è sola e incinta per sbaglio, ma molto più spaventata. In ospedale conosciamo anche Teresa (Aitana Sánchez Gijón), madre di Ana ed attrice che sta per ottenere la parte principale in un allestimento teatrale di Donna Rosita nubile.
Inizialmente Janis e Ana sono solo due donne – molto diverse per età ed esperienze – che si ritrovano a partorire nello stesso momento. In seguito si reincontreranno per caso, e il loro rapporto prenderà una piega imprevedibile.
Il senso del materno
Dove c’è una donna che diventa madre, lì un grumo viscerale di sentimenti contraddittori comincia a camminare sulle proprie gambe. Questo è vero per tutti i film di Almodóvar, ma sembra essere arrivato il momento di fare un passo in più. Inserire la maternità in una prospettiva storica è l’unico modo per restituirle un senso che nell’imminenza del parto sembra mancare del tutto (per Janis e Ana), e che anche a distanza di anni si fatica a comprendere (per Teresa). Alleviare lo shock del dare e perdere la vita è un affare personale e generazionale, ed è una forma di travaglio comune a tutta l’umanità.
Le lacrime amare di Janis Martínez Montero (non sono poi così amare)
Ci sono due donne nella stessa stanza: condividono l’intimità domestica, ma il loro rapporto è attraversato da tensioni gestuali e verbali che si intensificano velocemente. Una di loro mette la sua vita nelle mani dell’altra; l’altra di quel dono non sa che farsene, al di là di alcuni vantaggi materiali immediati. Fin qui le somiglianze con Le lacrime amare di Petra Von Kant (R. W. Fassbinder, 1972) sono innegabili. Dal punto di vista poetico, però, i due film non potrebbero essere più diversi.
Per Fassbinder i rapporti personali sono sempre rapporti di forza, e il conflitto tra due personaggi è anche un conflitto di classe, allo stesso tempo cristallizzato e febbrile. Per Almodóvar il conflitto non è importante da mostrare in sé, quanto per quel nucleo di dolore quieto che lascia dentro le protagoniste. Soffrendo esistono, soffrendo maturano, soffrendo agiscono. Il racconto del trauma è così dilatato da invadere spazi narrativi orfani di ulteriore contesto. E l’emergenza, se decontestualizzata, spesso è manipolatoria.
Accade così che l’adesione emotiva che sentiamo verso Janis ci spinga a percepirla come personaggio positivo, nonostante la sua posizione dominante nella relazione con una giovane donna in difficoltà sia quantomeno problematica. We should all be feminists leggiamo sulla sua t-shirt, e il condizionale è d’obbligo: lei, inconsapevolmente, è la prima a non esserlo.
La memoria storica
Un meccanismo simile è all’opera anche nelle scene sul recupero del corpo del bisnonno. La linea narrativa emerge già pochi minuti dopo l’inizio del film, con una forte discontinuità visiva rispetto all’esordio patinato sul set di una rivista di moda. I ritratti in bianco e nero delle vittime dei falangisti si impongono al nostro sguardo con intensità ipnotica, e promettono di portarci altrove.
Ma quell’altrove non si palesa mai. Il tema ritorna verbalmente più volte, in maniera piuttosto strumentale all’evoluzione dei rapporti tra Janis e Arturo e Janis e Ana. Quando arriverà il momento dell’apertura della fossa sarà dolente e commosso, e chiuderà un cerchio simbolico. Per chi ama l’Almodóvar solenne: è tempo di tuffarsi in un brodo di giuggiole. Per chi preferisce quello sarcastico: continua a non esserci critica al regime più puntuale della sequenza di apertura di Carne Tremula (1997).
In breve
Madres Paralelas è un film che attinge ai codici di dramma storico e mélo, scegliendo di non andare a fondo in nessuna delle due direzioni. Ne risulta uno sfondo sfumato, a volte contraddittorio, per le emozioni delle protagoniste. Le interpretazioni di Cruz, Smit e Sánchez Gijón sostengono da sole l’intero film: Almodóvar idealmente si siede in sala insieme a noi e si gode lo spettacolo dopo aver inserito il pilota automatico. Quarantun’anni dopo il primo lungometraggio è legittimo fare film per il puro gusto di farlo. Allo stesso modo noi non ci sentiremo in colpa se, alla ricerca di nuovi significati e nuove visioni, rivolgeremo lo sguardo verso altri schermi.
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