I dating show mi hanno sempre affascinato, e non perché veicolano una ridondante affermazione dell’esistenza dell’amore, e neanche perché rappresentano una potenziale possibilità di poter trovare l’anima gemella. Ne sono attratta perché racchiudono una ricchezza documentaria che, nonostante un copione ideale, riesce a emergere dagli individui che vi partecipano.
Si nota dall’incresparsi di un labbro, dalla tonalità della voce in occasione di determinate risposte, dal linguaggio del corpo in generale. Tutto agisce per svelare i nostri meccanismi istintuali mostrandoci come poveri mammiferi in cerca di un compagno per la vita, a dispetto delle telecamere puntate.
L’amore non è per tutti
Un altro elemento che ho sempre ritenuto imprescindibile per comprendere le logiche dell’amore spettacolarizzato è tenere presente che esso non è per tutti. Solo recentemente il dating in tv riserva spazi meno rigidi dedicati a persone fuori dalla “normalità” e impossibilitate a ricorrere alle classiche modalità di “ricerca” (come le uscite nei locali, le interazioni in spazi pubblici o gli incontri fortunati). Sto parlando perlopiù delle persone portatrici di handicap, ma anche di coloro che hanno disabilità mentali o fisiche, disturbi dello sviluppo o dell’apprendimento.
Mi sono sempre chiesta (in modo retorico, avendo molto chiara la risposta) perché una larga categoria di esseri umani non potesse permettersi di trovare l’amore in un dating show.
Ebbene, perché parlarne è un tabù, mascherato da ossequiosa premura. Assistere al dating tra persone ritenute non “normali” mette a disagio, e un programma che lo fa è facilmente liquidabile come “offensivo”, quando in realtà la questione della risposta spettatoriale è molto più complessa di così.
Tentativi più (o meno) riusciti
È il caso di The Undateables, una serie tv documentaria britannica che segue gli appuntamenti di soggetti affetti da disabilità, arrivata ormai alla stagione 11 con 53 episodi in totale (è in onda dal 2012 su Channel 4). È stata fortemente criticata sia da giornalisti (soprattutto per la scelta del titolo, come scrive Frances Ryan per The Guardian, qui il suo articolo) ma anche da medici, con l’accusa di sfruttare i protagonisti degli incontri e renderli ridicoli. C’è invece chi lo difende, sottolineandone l’importanza vitale in grado di abbattere le fortificate barriere sociali.
È delicato riuscire ad affermare cosa sia giusto e cosa risulti offensivo, come quando nel più vicino a noi Primo appuntamento (in onda su Real Time ormai da 4 anni) l’attenzione viene puntata su una partecipante con la sindrome di Tourette che diventa un’influencer sui social spiegando apertamente cos’è e che tipo di “adattamenti” ha apportato nella sua vita.
Love on the Spectrum
Tra spettacolo e superamento dei tabù sociali il giudizio si blocca nel mezzo, tranne quando però oltre al dating si scava più a fondo, insegnando uno sguardo, prima di una successiva opinione. Sto parlando di Love on the Spectrum, reality show dalle forti ambizioni documentarie, che va oltre lo spettacolo per colmare un vuoto di conoscenza relativo allo spettro dell’autismo.
Prodotto per il network australiano ABC, è ora disponibile su Netflix: sono 5 puntate, ognuna di circa un’ora, dedicate alla comprensione dei disturbi dello spettro autistico, in particolare nell’ambito delle interazioni proiettate verso relazioni sentimentali, campo più problematico per i soggetti in questione, riscontrando in primis difficoltà nella decodificazione delle emozioni altrui.
Vi chiederete perché tanto spazio dedicato ad un reality di dating tra persone autistiche, dunque: perché Love on the Spectrum è quell’approfondimento documentario che si maschera da dating show senza pretese, è una ricerca coinvolgente che descrive le situazioni dei personaggi generando una potente empatia nello spettatore. Se già con Atypical Netflix aveva deciso di presentare una storia (finalmente) diversa, ora amplia i suoi orizzonti e associa la realtà alla fiction.
Nella serie non si affronta solo il concetto di dating, ma le interviste sono riservate anche a due coppie insieme da anni e al loro rapporto. Inoltre, in casi particolari, prima di un appuntamento, entra in gioco l’esperta di relazioni Jodi Rodgers, la quale spiega alcuni pattern utili a chi ha di fronte per non farsi prendere dal panico.
In circa 5 ore totali di programma 9 giovani adulti si affacciano nel mondo delle relazioni interpersonali e romantiche dando voce ai loro pensieri e dimostrando una forte consapevolezza del mondo in cui vivono. Le riprese e le interazioni con i membri della troupe è fluida e non forzata, la presenza di un occhio esterno è impercettibile, specialmente nelle riprese in ambito familiare.
E durante gli appuntamenti quell’occhio diventa quasi un’ancora di salvezza, a cui i ragazzi non si vergognano di manifestare il loro stato d’animo (come succede ad Amanda, nell’uscita con uno dei protagonisti, che non riesce a sostenere il ritmo e si allontana ritirandosi dal tavolo del ristorante).
Chi ha realizzato il progetto ha ascoltato veramente le esigenze dei ragazzi, in modo da appassionare qualsiasi tipo di spettatore, e non per l’aspetto dedicato alla descrizione del disturbo, ma perché la difficoltà dei rapporti è riscontrabile per chiunque, e l’etichetta “normale” è un’asserzione approssimativa che stona portando a definire tutti gli altri “anormali”.
He loves/ He hates
Nel corso delle puntate mi sono trovata più volte a condividere le medesime paure identificandomi senza compatimenti sottintesi. A chiedermi: “Cosa piace a Silvia? Cosa odia Silvia?” senza l’ombra di pregiudizi, perché è così che si ragiona prima di entrare in contatto con una persona nuova, in qualsiasi caso.
Indagare lo spettro dell’autismo apre gli orizzonti di una ricerca mai approfondita in televisione, e, in particolare, mai affrontata propriamente nei reality show. Love on the Spectrum documenta con rispetto e protegge chi sceglie di essere mostrato. Aiuta a capire meglio una disabilità a chi non ne sa molto, che supera lo scoglio del “poverino” di fronte alla delusione d’amore. Soprattutto descrivendo l’autismo come una diversità, e non come un’anormalità.