Bellafine (Dischi Soviet Studio/ AudioGlobe The Orchard), Lombroso
Bellafine (Dischi Soviet Studio/ AudioGlobe The Orchard), Lombroso

Bellafine (Dischi Soviet Studio/ AudioGlobe The Orchard), è il nuovo album dei Lombroso.

C’è un momento nel passato del panorama musicale mainstream italiano nel quale quella che veniva definita “musica leggera” iniziò ad aprirsi finalmente al rock. Era un’apertura apparentemente timida, quasi il gesto rapido di affacciarsi al di fuori del sound comune per sentire il brivido della vertigine; uno sporgersi fulmineo sull’ignoto per poi tornare immediatamente alla sicurezza della convenzionalità. Oggi, a risentirlo, sembra un gioco che giocarono molti cantautori di quegli anni ’60, come Battisti e Mogol. Basta ascoltare un brano come Il tempo di morire del 1970, o Insieme a te sto bene dell’anno successivo.

E quel gioco è diventato oggi un destino per molti artisti italiani, come per i Lombroso: un destino che li fa nascere 21 anni fa e li riporta qui, ora, sotto il segno dello stesso mostro sacro, uno dei padri di quel gioco: Mogol.

I Lombroso, Mogol e le canzoni

Un pomeriggio del 2003, Dario Ciffo (ex violinista storico degli Afterhours, ora voce e chitarra) propone all’amico Agostino Nascimbeni, talentuoso batterista, di esibirsi insieme in un concerto, improvvisando proprio Insieme a te sto bene. Il risultato è l’esplosione di un’energia e una complicità inaspettate che, sospinte da una straordinaria dose d’ironia e spensieratezza tipiche di una coppia d’amici, li ha portati fino al quarto album, questo Bellafine, nel quale compare, appunto, un’emblematica collaborazione con Mogol.

Emblematica perché, per quanto riguardi una sola canzone del disco (Sentimento rock), quel gioco di cui abbiamo parlato compare in ogni brano, come se la firma del Maestro fosse solo la dimostrazione concreta di un’influenza costante lungo tutta l’opera.

Certo, come detto, caricata di quell’ironia che sembra il valore aggiunto dei Lombroso: qualcosa che a tratti rimanda allo straniamento di Bugo, a tratti al sarcasmo sofisticato di Colapesce e Dimartino, ma forse, in fondo, non è altro che la vena ironica di un gruppo di amici che si diverte con l’ascoltatore come si divertono tra loro.

Ed è così che nascono brani come Spiegarsi, dove l’amore cinico di Dylan incontra l’umorismo intellettualistico di Battiato, o come Bellafine, dove un pop armonico basato sui cori si lascia influenzare da una chitarra acida che inacidisce anche il tono della voce solista. Un brano, quest’ultimo, che, se proprio vogliamo andare a scavare nel passato di Ciffo, può ricordare La sinfonia dei topi dei suoi Afterhours.

Ma in realtà il sound dei Lombroso va in un’altra direzione, e ce ne accorgiamo con Universo Circolare, un rock in cui l’inclinazione alternative va in una direzione più dolce, dando a un testo che potrebbe ricordare Dea (cantata dallo stesso Ciffo nel live Siam tre piccoli porcellin) degli Afterhours una forma di sincero romanticismo.

Eppure, lo abbiamo detto, è un’altra strada quella che intraprendono i Lombroso, fin da quando sono nati. E qui ce lo dimostra Sto pensando a te: se Battisti e Mogol avessero scritto qualcosa insieme oggi, sarebbe stato forse proprio questo blues, danzando in una direzione contraria (anche se non ostinata) rispetto alle tendenze trap che si addensano sul pop italiano.

Oppure, dopo tanti anni di collaborazione e ricerca artistica elevata, si sarebbero concessi una sana autoironia, e allora avrebbero scritto Una canzone per tutti: il brano simbolo del disco, un gioco di rimandi e richiami, rassomiglianze informi, ma orecchiabilissime, come lo sono le canzoni nazional popolari, appunto, con quell’effetto vocale che già spinge e quasi costringe il pubblico a cantare unito in un coro da stadio, come i Thegiornalisti e Tommaso Paradiso insegnano.

Qui, invece, è uno scherzo, un gioco che Dario e Agostino hanno fatto prima insieme e poi con i loro ascoltatori, racchiuso in una sfida: scoprite a cosa assomiglia questa canzone. Impossibile rispondere con sicurezza, perché assomiglia a tutto e a niente, come suggerisce lo splendido finale, quella rullata di batteria che accompagna alla scala di chitarra elettrica, perfetti e perfettamente fuori luogo rispetto a una canzone nazional popolare.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.