Non è retorica: per noi che abbiamo un deficit visivo, la musica ha un altro valore. Non nel senso che per un cieco o un ipovedente la musica sia più importante di quanto non lo sia per un normovedente (questa sì che sarebbe retorica), ma nel senso di un’importanza diversa. Soprattutto in un mondo come questo, dove la musica è sempre più legata a immagini e video che ormai, quasi sempre, ne mostrano il significato. O, almeno, il significato che si vuole evocare con quella musica. Perché un disabile della vista che ascolta una canzone, senza riuscire a vedere il suo video o le sue immagini, non perde qualcosa, ma trova qualcos’altro. Qualcosa di diverso, un significato diverso.
Sentire più che ascoltare
L’assenza di quelle immagini risveglia una forza che quello stesso suggerimento avrebbe assopito, la forza dell’immaginazione, capace di abbattere il senso comune e aprire altre immagini, spazi che per gli altri non esistono. È per questo che per la musica ciò che vale per tutta l’esistenza di un cieco o di un ipovedente: ed ecco che diverso vuol dire differente, originale, unico e sempre irripetibile. Una ricchezza rara, oltre la mancanza: per l’esistenza di un disabile della vista, questa coscienza vale per la musica, come può valere per ogni aspetto della sua vita.
Non so se sono il solo ad avere questa sensazione e se sia legata in qualche modo alla mia ipovedenza, ma a me la musica piace toccarla, sentirla oltre l’udito. Perché, in fondo, una canzone che scorre sul mio smartphone quando apro Spotify o YouTube, fugge via piatta, sostituita immediatamente da quella successiva, come entrasse da un orecchio ed uscisse dall’altro, senza lasciarmi nulla che sopravviva all’attimo in cui ha suonato.
Forse è per questo che continuo a comprare CD e ad aggiungere vinili all’enorme collezione ereditata da mio padre. Forse è per questo che continuo ad andare ai concerti. Perché, dopotutto, nonostante il palco abbia ormai una distanza incolmabile per i miei occhi, ai concerti la musica non è soltanto musica, ma un’esperienza di tutto il corpo, in cui gli occhi, davvero, servono a poco.
Così non importa se un concerto non costi meno di 80 euro e se tu sia distante un chilometro dal palco; non importa se per ottenere un biglietto per disabili ogni organizzatore abbia una politica differente, se alcuni non rispondano proprio e se chi risponde ti dia certezza di essere “eletto” solo poche ore prima dello spettacolo; non importa nemmeno se l’area accessibile sia pensata per i disabili in carrozzina con un visus di dieci decimi, data la distanza dal palco.
O forse invece importa, importa eccome. Perché ne risente l’esperienza di tutto il corpo, dei sensi, e quindi ne risente l’immaginazione: quella differenza all’improvviso non è più una ricchezza, ma diventa un peso, l’emozione si fa rabbia e cresce proporzionale all’idea di quanto poco sarebbe bastato perché quell’esperienza fosse stata indimenticabile.
A volte succede
Eppure a volte succede di vivere l’esperienza perfetta di un concerto. Ma succede quando meno te lo aspetti, quando ti hanno regalato il biglietto, per esempio, un biglietto qualunque, senza riduzioni particolari o biglietti gratuiti per accompagnatori, senza accessi ad aree disabili che, tanto, non distinguono tra una disabilità e l’altra. Un biglietto in mezzo alla folla, per ballare e saltare in mezzo a migliaia di persone, come non succedeva da tre anni, ormai, a un chilometro dal palco, ma con degli schermi alti e grandi che riprendono ogni gesto di chi suona, per tre ore consecutive.
Ecco dove la musica è veramente accessibile: era il 24 giugno di quest’anno, Autodromo di Imola, concerto dei Pearl Jam. Ve l’ho raccontato poco tempo fa, proprio su qui su FRAMED. Ma vi dirò di più: potevo chiudere gli occhi e smettere di guardare anche quel poco che riuscivo a vedere intorno a me, era lo stesso, tanto gli occhi non servivano più del resto del corpo. Era la musica, era lì e la stavo ascoltando, annusando, assaporando: la stavo toccando, come piace a me.
A volte succede solo in Italia
E suona strano che questa esperienza perfetta sia accaduta in Italia. Non in Olanda, per esempio, dove pure ho assistito in questa stessa estate a un concerto incredibile, quello dei Rammstein. Vi ho già raccontato anche questo (qui). Vi ho detto delle scenografie, delle luci, dei fuochi artificiali, dei fumi, dei razzi e degli incendi di questa band che ti travolge fisicamente, rapendo tutto il corpo, i sensi. Eppure, anche se li c’era molto di più di quanto non ci fosse in Italia, mancava qualcosa. Qualcosa che Imola e Roma invece avevano: il calore della gente, l’abbandonarsi dei corpi alle vibrazioni che li congiungono l’uno all’altro e, insieme, a ciò che li circonda, facendoli entrare dentro la musica, per toccarla ed esserne parte.
E forse è proprio questa la vera accessibilità in un concerto: non tanto i percorsi dedicati, gli spazi riservati, gli schermi immensi o la vicinanza al palco, ma l’atmosfera umana.
Perché ognuno è differente dall’altro, ma tutti ci assomigliamo: chi è disabile coglie meglio di chiunque altro le differenze, ma può anche capire meglio quanto siamo simili. Come disse un giorno uno che di musica qualcosa ci capiva: “Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di assomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente” (Fabrizio De André).
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Qui l’intervista ad Alessio Tommasoli a proposito del suo podcast UN IPOVEDENTE A ROMA.