Il Premio all’Originalità vinto nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2021 già anticipa appieno l’essenza di Lamb. Un cinema visionario che affonda le sue radici nel mito e nel folklore islandese per raccontare una storia universale, dell’uomo contro la Natura.
È impossibile non farsi ammaliare dall’opera di Valdimar Jóhannson, già presentata dall’Islanda agli Oscar 2022 e acquistata da una distribuzione statunitense fondamentale e innovativa come A24. In Italia arriva nelle sale il 31 marzo con Wanted Cinema, ma abbiamo avuto l’occasione di guardarlo in anteprima grazie ad Alice nella città.
La trama
In una cupa notte di Natale, una presenza oscura e misteriosa si aggira per un ovile. Sentiamo il suo respiro, affannato e bestiale ed è con la percezione della sua invisibile minaccia che Lamb ha inizio.
A pochi passi, ignari di tutto, Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snær Guðnason), la coppia di allevatori protagonista, cenano racchiusi nella propria solitudine. In una casa così silenziosa che gli unici rumori percepibili sono i passi felpati del gatto. Si amano, Maria e Ingvar, ma una perdita troppo grande li ha allontanati e resi presenze vuote l’uno nella vita dell’altra. La visita della misteriosa bestia porta però dietro di sé un dono: un neonato, metà agnello metà bambina, partorito da una delle loro pecore e adottato dalla coppia come promessa di nuova felicità.
Ada, questo il nome dato alla creatura, è un’anomalia che sa a tratti di miracolo, a tratti di maledizione. Dolcissima e mostruosa al tempo stesso, come mostruoso è l’Essere che l’ha portata al mondo, personificazione di una Natura che non conosce ragioni umane.
È un surrogato in cui Maria e Ingvar ripongono temporaneamente l’illusione di tornare alla gioia del passato, pur sapendo di compiere un oltraggio, una sfida al sovrannaturale.
La poesia visuale di Lamb
Dal punto di vista formale, Lamb ricerca un’estetica evocativa, un’atmosfera rarefatta, in netto contrasto con la concretezza della vita di campagna. Aiuta, certamente, l’ambientazione nell’entroterra islandese, tra montagne imponenti, vallate verdissime e chilometri di spazi aperti e incontaminati in cui la fattoria di Maria e Ingvar è l’unico segno di presenza umana.
In questo luogo/non-luogo sospeso (memorabili le sequenze dentro la nebbia) è come se tutto fosse possibile, anche ciò che oltrepassa la razionalità. Non è un caso, a questo proposito, che nel film i dialoghi siano rari e scarni. E non è infatti la parola, non è la logica, lo strumento che serve per entrare in contatto con Lamb.
Valdimar Jóhannson descrive la sua opera come un poema visuale. Una poesia visiva sulla perdita, fatta di suoni e di immagini.
Il mostro, l’orrore e la mitologia: elementi vincenti di un grande film – Spoiler
Nello spettacolo sensoriale rappresentato da Lamb, però, man mano si incastrano elementi, propriamente filmici e di sceneggiatura, che inchiodano il pubblico alla poltrona in sala. Uno di questi è l’arrivo inatteso di Petur (Björn Hlynur Haraldsson), fratello di Ingvar, che coincide con il momento di massima rottura delle leggi della natura: quando Maria uccide la pecora-madre, reclamando Ada nel mondo umano. La scelta della donna spezza irrevocabilmente un equilibrio sacro, alimentando la convinzione che qualcosa di terribile accadrà per rimediare al suo gesto. Su questa premonizione si basa così tutta la tensione successiva e crescente, fino alla rivelazione finale del mostro e al tragico epilogo, che permettono di classificare Lamb anche come un sofisticato horror.
Non temiamo di definirlo uno dei migliori film di questa stagione cinematografica.
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