Cosa fa più male del male stesso? Hannah Arendt risponderebbe senz’altro: la sua banalità.
La banalità del male, il cui sottotitolo è Eichmann a Gerusalemme, è un saggio imprescindibile nella formazione contemporanea. Pubblicato nel 1963 dalla storica e filosofa tedesca, è nato dall’integrazione dei suoi articoli come inviata del New Yorker al processo ad Adolf Eichmann, tenente colonnello nazista.
Durante il processo, a cui prese parte in qualità di inviata speciale del “New Yorker”, Hannah Arendt si rese conto che l’uomo, privo di pensiero, si limitava a mettere in pratica gli ordini ricevuti.
L’assuefazione al male secondo Arendt
Concepire il male come astrazione di normalità è cosa paradossale, ma possibile. Una normalità che diventa parte della quotidianità dei nazisti, assuefatti da un’ideologia padronale, la quale poneva il Führer al centro di ogni cosa, apparato statale, sociale e addirittura familiare.
Tutto veniva rimesso al volere di Hitler, senza contraddizioni. Il nazismo non ammetteva diversità, l’altrove e l’altro venivano annichiliti annientati. Alla luce di questo, cosa sarebbe mai potuto rimanere all’uomo, se non una realtà distorta?
Il male, scriveva Arendt, nasce dall’assenza del pensiero. Non è una forzatura, ma la sua diretta mancanza. Per questo motivo spesso emerge in forme scontate, ovvie, ordinarie. Non ha lati oscuri, non ha remore né vergogna. E senza consapevolezza, non può generare rimorso.
La filosofa osserva e descrive accuratamente i comportamenti e le azioni di Eichmann, lo descrive non come uomo cattivo, ma solo superficiale e inetto. Assuefatto al male al punto da non distinguere ciò che si definisce orrorifico.
La provocazione di Arendt, secondo cui per fare del male non serve e non basta essere malvagi, provocò e provoca ancora riflessioni. Stabilisce che al male ci si abitua, come a un addestramento. Una visione, questa, a tratti scomoda che trova una nuova dimensione nella straordinaria opera diretta da Jonathan Glazer, La zona di interesse, candidata a cinque premi Oscar 2024 tra cui miglior film.
Jonathan Glazer e il male fuori campo
La zona di interesse, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, racconta la storia del comandante nazista Rudolf Höss e della sua famiglia. Una vita tranquilla e borghese, lontano dalla città.
Lui si reca al lavoro, lei cura il giardino e i figli giocano tra loro. Eppure qualcosa è sempre fuori posto. C’è un “dettaglio” che cambia tutto, perché lì, separato da loro soltanto da un muro, c’è il campo di concentramento di Auschwitz, e tutto l’orrore che contiene.
Niente di ciò che succede a pochi passi sembra smuovere minimamente le loro coscienze. Né con il fumo né il fuoco dei corpi arsi, né spari e le urla di una sofferenza continua e atroce. Nulla scalfisce quella serenità quotidiana che aleggia sulla famiglia Höss.
Il potente lavoro di regia di Glazer si esprime in ciò che l’immagine non mostra sullo schermo. Dai primi piani inesistenti al suono costante che dà forma a ciò che gli occhi non vedono, ma la mente ha già colto.
La zona di interesse è un film che chiaramente parla dell’Olocausto, ma al tempo stesso, costringendo il pubblico a guardare tutto dal punto di vista dei carnefici, è anche un film che va oltre. Parla di tutto il male contemporaneo e di tutta l’indifferenza con cui lo si affronta: mostra a ognuno di noi spettatori che, rispetto ad altre tragedie, non siamo poi così diversi dal distacco della famiglia Höss.
Un gioco semantico sadico, forse, questo di Glazer nei nostri confronti, con cui la crudeltà si fa spazio assumendo le vesti della normalità, del convenzionale. Un gioco al quale ci si abitua. Come si si abitua ai primi quattro minuti di nero del film, nell’attesa spasmodica che tutto inizi (e che cominci a far male).
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