La misura del dubbio. BIM Distribuzione
La misura del dubbio. BIM Distribuzione

Occhio, come sempre, al titolo originale: quello del nuovo film di Daniel Auteuil (presentato a Cannes 2024, e ora nelle sale italiane per BiM come La misura del dubbio) è Le fil. Ovvero “il filo”, che nel corso di questo legal drama venato di noir si rivelerà essere un elemento chiave nel processo a carico di Nicolas Milik (Grégory Gadebois), padre di famiglia sotto accusa per uxoricidio, difeso dall’avvocato Jean Monier (Auteuil).

Ma quella del filo può essere anche la metafora della vicenda, e se vogliamo di un intero filone del cinema francese contemporaneo.

Processo alla (irraggiungibile?) verità

Dai pluripremiati Saint Omer di Alice Diop e Anatomia di una caduta di Justine Triet a Il caso Goldman di Cédric Kahn, le recenti produzioni d’Oltralpe frequentano volentieri le aule di tribunale. Dove però non vediamo rappresentato il, pur travagliato, raggiungimento di una verità oggettiva, bensì la decostruzione di quest’ultima. Il confine tra colpevolezza e innocenza, come tra la menzogna e il suo contrario, diventa così sottile da rischiare di perdersi. Una questione che, se non è nuova nella cultura occidentale moderna, in questo particolare momento storico sembra (anche) lo specchio di un Paese e della sua odierna crisi d’identità.

Ma l’incertezza sovrana, nei film citati, non alleggerisce la posizione dei protagonisti, e la nostra. Semmai la complica, perché personaggi e spettatori sono comunque (e forse tanto più) tenuti a schierarsi: moralmente, culturalmente, politicamente. Nell’impossibilità (forse) di una parola che sciolga definitivamente i dubbi e le contraddizioni, il figlio di Sandra Hüller nel film di Triet dovrà comunque scegliere se stare o meno dalla parte di sua madre; così come l’opinione pubblica francese degli anni ’70 sarà chiamata a sostenere o condannare il controverso militante e bandito ebreo di estrema sinistra Goldman narratoci da Kahn.

Domande, risposte e inquietudini (SPOILER ALERT)

Tutto questo vale anche per Auteuil, la cui Misura del dubbio è ispirata al libro Au guet-apens: chroniques de la justice pénale ordinaire dell’avvocato penalista Jean-Yves Moyart (sotto lo pseudonimo di Mô Maitre), che si richiama a fatti realmente accaduti. L’acclamato attore di Jean de Florette e Niente da nascondere torna dunque dietro la macchina da presa (dopo Sogno di una notte di mezza età) e ritaglia per sé il ruolo di un uomo di legge roso dai propri demoni interiori.

Sono infatti quindici anni che l’avvocato Monier non accetta un caso penale, dopo aver fatto graziare un assassino poi tornato nuovamente a uccidere. Ma qualcosa, nella figura smarrita, passiva e un po’ infantile dell’imputato Milik, sembra averlo smosso, convincendolo che l’uomo sia innocente, e che spetti proprio a lui dimostrarlo. Ma, mentre l’istruttoria si trascina per anni e i pezzi del puzzle, in un senso o nell’altro, continuano a non combaciare, il difensore si fa sempre più coinvolgere, isolandosi anche dalla compagna e collega Annie (Sidse Babett Knudsen). E il dilemma resta: Monier sta consumandosi (e superando i suoi limiti, anche deontologici) per la causa giusta? O il suo è un nuovo, fatale errore?

Forse il limite del film di Auteuil, rispetto agli altri esempi precedentemente citati, è quello di farci dubitare per poi cedere, nel finale, alla tentazione di tirare quel filo sottile, offrendo una risposta fin troppo netta alla domanda che ci aveva agitato. Spiazzandoci con un coup de théâtre efficace ma (fin troppo) classico e chiarificatore. Nondimeno, La misura del dubbio ci sembra appartenere di diritto a quella schiera di parabole giudiziarie problematiche che dicevamo. Perché a restarci in testa e sotto la pelle, più dell’ultima rivelazione, è l’inquietudine del percorso che ci ha portato ad essa.

Accentuata dalla regia nervosa, a tratti febbricitante di Auteuil, tallonata dalle insistite musiche di Gaspar Claus, e dall’ambientazione in una Camargue fredda e alienata, popolata da donne e uomini soli col proprio malessere. Come lo stesso protagonista, cui l’attore-filmmaker conferisce credibilità e umanità, senza per questo alleggerirne i chiaroscuri della coscienza.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.