La masterclass di Giorgio Moroder a Milano. Foto di Federico Occhionero.
La masterclass di Giorgio Moroder a Milano. Foto di Federico Occhionero.

La masterclass con il grande Giorgio Moroder si è svolta il 29 giugno 2024 alla Fondazione Prada di Milano

Da quando ho scoperto la musica di Giorgio Moroder (sarà stato circa nel 2012 quando vidi per la prima volta Midnight Express nella storica VHS dell’Unità) non mi risulta abbia mai presenziato pubblicamente a una “lezione di cinema” a lui dedicata in Italia. Forse all’estero, negli Stati Uniti. Ma sicuramente non nel suo Paese d’origine.

L’occasione si è presentata durata la retrospettiva di giugno, dedicata ai film da lui composti, al Cinema Godard della Fondazione. Precedeva la masterclass una proiezione della sua discussa versione di Metropolis, il capolavoro immortale di Fritz Lang.

Il maestro è atteso con grande concitazione. Le prenotazioni sono andate a ruba in pochissimo tempo. Sembra evidente che molte persone siano lì nella speranza di entrare anche senza. Fuori dal cinema la coda è lunga ma scorrevole, il sole non dà tregua. La sala si riempie: c’è gente di tutte le età, perfino bambini. Ragazzi seduti ovunque.

Entrano i moderatori Manlio Gomarasca, direttore di Nocturno, e Paolo Moretti, curatore del programma del Cinema Godard. Non c’è bisogno di presentare il maestro. Bastano due nomi, Giovanni Giorgio Moroder, e parte un applauso enorme. Entra una leggenda di 84 anni, il compositore e produttore elettronico italiano più famoso ed importante del mondo. Ha un notevole accento americano, complice l’ultraquarantennale carriera a Los Angeles, ma l’italiano lo capisce e lo parla bene. Anche se come confermerà più avanti, è ormai evidente che sia rimasto ben poco del “Hans Jörg” altoatesino.

Non manca di ironia e di verve da “showman”, quale è sempre stato fin dai primi tempi. Nonostante la memoria a volte giochi qualche scherzo, il maestro si rivela una fonte di aneddoti interessanti e spesso divertenti. Spronato a raccontare i primi anni della giovinezza, si presenta in questo modo.

Gli inizi e le prime esperienze europee

Riportiamo qui alcuni dei passaggi più interessanti della conversazione tra Moroder, Gomarasca e Moretti.

Sono nato molti anni fa. Suonavo la chitarra intorno ai 15 anni. A 19 dovevo dare un esame di riparazione a settembre ed un gruppo di ragazzi mi ha offerto un lavoro come musicista. Io non sono andato all’esame, ho dormito. I miei erano cattivissimi ma alla fine ho vinto io. Sono diventato musicista professionista. Abbiamo cominciato a Grindelwald in Svizzera con il primo lavoro, poi siamo andati da tutte le parti in Germania, Svezia, Austria.

Quali sono le prime cose che hai sentito e che ti hanno fatto venir voglia di fare musica?

Avevo 15 anni e ho sentito un pezzo che mi è piaciuto moltissimo che si chiamava Diana di Paul Anka! Mi dicevo: se riesco a cantare quel pezzo lì, un pezzo facile, forse ce la faccio. Paul Anka mi è sempre rimasto in testa, è grazie a lui che ho cominciato a diventare un musicista. A 17 anni facevo il giro dei locali di Ortisei cantando Diana di Paul Anka.

Circa dieci anni fa c’era un party a Los Angeles, e c’era lui: “C’è Paul, c’è Paul. Il mio idolo”. E dice mia moglie, “Vai a vederlo, saluta!”. “No, no. Mi vergogno, è troppo famoso, non posso”. “Se non vai adesso non lo vedrai mai più”… Si è alzato e stava passando. Lei praticamente mi ha spinto, l’ho salutato e lui mi ha detto: “Ah, Giorgio Moroder, abbiamo parlato di te due giorni fa, in un altro show”. Poi mi sono messo a piangere, talmente ero emozionato.

Raccontavi che una delle prime cose che hai fatto è stata suonare in un gruppo che si chiamava Happy Trio quando stavi a Ortisei, che poi ti ha dato la chance di andare a fare una tournée.

Giusto. C’era questo ragazzo di Bolzano, un pianista bravo che mi ha chiesto se volevo fare parte, non del Happy Trio perché non c’era più, però di un trio, eravamo in tre e appunto abbiamo incominciato a Grindelwald, poi lì abbiamo incontrato un pianista molto, molto bravo, un certo Giorgio Corafaz, che ci ha chiesto se magari lasciavamo il pianista con cui eravamo. Ci siamo uniti a lui, è andata bene, siamo partiti per la Francia.

Abbiamo fatto il tour di Johnny Hallyday, non so se ve lo ricordate, il suo primo pezzo era Suovenir, souvenir. Abbiamo continuato a girare un po’ in Europa e a un certo momento dopo una nostra serata, siamo andati a un nightclub. Io avevo ventidue, ventitré anni e c’erano tre musicisti sulla quarantina, ma proprio vecchi, malandati, scontenti, lì ho deciso di smettere di fare il musicista per diventare un compositore.

Risparmai 16.000 franchi, in quel periodo lì erano, non so quanto, forse 20, 30.000 dollari di adesso. E siccome avevo una zia a Berlino e un contatto lì, sono stato a casa sua per circa un anno e ho incontrato i Meisel, che erano produttori abbastanza famosi in Germania e avevano un cantante nuovo, si chiamava Ricky Shayne. Con Shayne ho fatto un pezzo che si chiama Ich sprenge alle ketten, “rompere tutte le catene”. Ho avuto la prima hit in Germania con circa 100 mila copie: non è un milione, però è stato il primo successo dopo tre mesi come compositore professionista.

E che tipo di musica volevi fare all’epoca? Non era ancora l’era della disco music, però sarebbe arrivata…

Un po’ sì, perché poi ho fatto un pezzo che è andato abbastanza bene anche in Italia, Looky looky, ho fatto anche il Cantagiro con Celentano, siamo partiti dalla Calabria, era super. Siccome non riuscivo a cantare bene “Ah Uh Mah Mah”, l’ho chiesto ad un amico e come compenso gli ho pagato una bistecca. Ho avuto un altro successo con un remake di un pezzo americano, Mendocino, Mendocino, ha venduto 1 milione di copie in quel periodo, nel ’68-’69.

Poi, a Berlino, in quel periodo c’era il Muro, quindi non si poteva uscire. Sono rimasto lì per quasi tre anni senza riuscire a partire perché l’aereo costava troppo, poi non avevo la macchina, sarei dovuto anche passare per la zona comunista che era sempre un problema, con i visti e quel genere di cose. Ad un certo momento mi sono detto basta. Era abbastanza deprimente Berlino in quel periodo con il Muro, quindi mi hanno offerto 1000 marchi e ho fatto due anni a Monaco con due successi abbastanza buoni.

Donna Summer e la nascita dell’euro-disco

Incidevi i tuoi brani già prima di andare a Monaco?

Ho cominciato a incidere a Berlino, poi nel ’71 sono andato a Monaco, che era più vicino ad Ortisei, dove andavo nei weekend. A Monaco ho fatto alcuni pezzi buoni, ma il vero successo è arrivato quando ho incontrato Donna Summer con cui ho fatto Love to love you baby, che è un brano abbastanza erotico e a quel tempo fu quasi uno scandalo, con Donna che faceva il “meow”.
Mi ero innamorato del pezzo di Jane Birkin, Je t’aime… moi non plus, però volevo farlo un po’ più coraggioso. Da quello che mi hanno detto è stato un grande successo per il pubblico femminile. Le donne si sono liberate un po’, hanno detto: se Donna Summer sa fare il “meowning” possiamo farlo anche noi. È stata una piccola rivoluzione oltre che il primo successo mondiale che ho avuto.

Ma l’incontro con Donna Summer, com’è avvenuto? Una volta mi hai detto che pensavi che il primo successo che potevate avere insieme era Hostage per Lady of the Night, che invece non fu un successo, no?

Era una ragazza del coro di cui avevamo bisogno per un pezzo. Io e Pete Bellotte, il mio produttore, ci siamo detti: se un giorno avremo un bel pezzo la prendiamo come cantante, non come cantante background, e poi abbiamo realizzato Hostage. Il problema fu che uscì in concomitanza dell’attentato al presidente del consiglio della Germania, quindi per la radio è morto, non passava più. Fu però un successo in Francia e in Belgio.

Una parentesi sul synth e gli album solisti

Da Looky looky a Love to love you baby c’è una bella evoluzione; cosa ascoltavi, cosa ti ha influenzato, cosa ti ha attirato anche verso questi nuovi strumenti?

In quel tempo lì a Berlino e Monaco ascoltavo quasi sempre musica americana o inglese. C’erano le stazioni, quelle abusive, Radio Luxembourg e Radio Caroline, mi pare di Londra, che riuscivo a sentire, quindi ascoltavo quasi sempre musica, diciamo, internazionale.

Ha influito molto anche la scelta di prendere il sintetizzatore, che è lo strumento che hai utilizzato per Son of my Father.

Mi era piaciuto molto un album di Wendy Carlos, Switched-On Bach, che è tutto fatto con sintetizzatore. Avevo un conoscente in Germania che ne possedeva uno (io non lo potevo comprare perché costava un sacco di soldi). In più è difficilissimo operarlo, devi essere un mezzo genio. Io infatti mi rivolgevo al tecnico di Eberhard Schoener (il compositore classico), ovviamente come musicista, ma soprattutto come tecnico. Son of my Father quando uscì andò piuttosto male, ma poi diventò un inno che suonano nelle partite di calcio. Quello è stato il primo pezzo che ho fatto col sintetizzatore.

E hai scoperto che ti piaceva?

Sì perché con un po’ di pazienza e con l’aiuto del tecnico riuscivo a trovare dei suoni belli, nuovi, totalmente nuovi.

Era questo che ti interessava, la novità di cercare dei suoni e una forma nuovi?

Sì ma era più un caso, se non ci fosse stato l’album di Wendy Carlos, non avrei mai scoperto i suoni del sintetizzatore.

Tu poi incidi tre album a nome tuo, che fanno un po’ la storia di quella che poi sarebbe stata la musica elettronica, tra cui Knights in White Satin, del quale – dicevi – non apprezzavi la copertina.

Brutto… Nella mente della Casablanca – la casa discografica – la disco era solo per la comunità gay. Allora io ero uno del paese, cioè non sapevo cosa succedeva nel mondo. Mi hanno fatto fare questa foto in un bagno turco con cinque uomini vestiti di bianco, e io con la barba in piedi, il tutto mi piaceva, ma non capivo a cosa servisse. Solo alcuni mesi dopo ho scoperto che la canzone Knights in White Satin, sarebbe Nights in White Satin, però hanno lasciato la K, cioè i cavalieri in raso bianco. Non è che mi sia arrabbiato ma mi sono sentito un po’ fregato.

Tra l’altro i gay club dell’epoca erano dei luoghi musicalmente anche molto alti, dove si poteva sentire musica nuova.

Sì, sì, infatti lo Studio 54 è stato il tempio della musica gay, praticamente l’hanno lanciata loro.

I Feel Love: un pezzo dance dal futuro

Parliamo un po’ anche di cos’è successo con Donna Summer. Un ragazzo di Ortisei che la incontra a Monaco e insieme rivoluzionate la musica disco per sempre.

Il bello è che lei era, prima di tutto, una cantante bravissima; ha iniziato a cantare 15 anni prima, già in America, a Boston. Poi cantava in tedesco per il musical Hair, e non solo. Parlava benissimo il tedesco. Mi è sempre piaciuta, sempre veloce, non era difficile, anzi. Poi scriveva le parole con Pete Bellotte, quindi non era solo una cantante, suonava bene anche il pianoforte.

Come lavoravi esattamente nello studio? Hai composto la base di I feel love e poi hai chiesto a Donna di scrivere le parole?

Sì, io facevo le basi, lì c’erano già le batterie elettroniche, le drum machine. Era abbastanza facile, facevo una demo e lei poi cantava.
Scriveva il pezzo con Pete Bellotte, poi entrava nello studio, bravissima e preparata. Cantava due, tre, massimo quattro volte, e basta, erano forse 10 takes in tutto e l’incisione era finita.

Per I feel love pensai di fare un pezzo basato solo sul sintetizzatore, cioè hi-hat, snare e gli accordi erano tutti programmati, avevamo una drum machine giapponese, abbiamo messo un tick, un click sul 24-piste, sul tempo che volevamo. Il tecnico, molto competente, riusciva a sintonizzare il click, facendo i suoni del sintetizzatore. Abbiamo preso poi Keith Forsey che è stato il mio batterista per anni, e lui suonava solo la cassa, ed era difficile perché era abituato a suonarla con tutti gli strumenti. Allora immaginava un po’, batteva i colpi in aria!
Abbiamo inciso il pezzo con la base della cassa della batteria vera.

David Bowie (N.D.R. fu Brian Eno a definirlo in questa maniera, quando lo fece sentire a Bowie) ha detto a proposito del brano, “ho sentito il futuro della musica”.

Questo pezzo è entrato nel National Recording Registry. Insieme a Take My Breath Away è il mio pezzo che sento di più, ho TikTok e lì lo ascolto quasi tutti i giorni.

L’approdo al cinema e gli Stati Uniti 

I feel love ti ha fatto entrare nel mondo del cinema: è lì la connessione.

La connessione lì è Alan Parker, bravissimo regista inglese, che mi ha chiesto di fare il film score per il suo Midnight Express. Non avevo mai composto un pezzo per un film, era una cosa totalmente nuova. Alan mi disse: non preoccuparti, prendi come inspirazione I feel love e fa una cosa simile per la scena dove il protagonista scappa via.

Ho fatto Chase, che nel film dura poco, forse un minuto, e poi il resto nel nostro bellissimo studio a Monaco. Mi ricordo che Parker venne da Londra a fare il mix e gli piacque, mi disse solo che mancava un po’ di oboe, perché era tutta realizzata con il sintetizzatore. 

Tra l’altro questo pezzo ha due vite perché ovviamente vive nel film ma moltissima gente lo conosce come brano da ballare; tutt’oggi è una dei classici che viene suonato in discoteca, anche per chi non ha visto il film di Alan Parker. Per questa prima colonna sonora tu hai vinto l’Oscar. Te l’aspettavi?

No. Però devo dire che a Hollywood parlano tanto, c’è gossip dappertutto e io sentivo ogni tanto che la colonna sonora di Midnight Express piaceva parecchio; poi venne uno dei produttori a dirmi che c’era la remota possibilità di vincere un Oscar, e sai, non ci credevo. Poi ho vinto il Golden Globe, che mi ha fatto capire che c’era una possibilità.

Se guardi gli Oscar e presentano i pezzi, noti che la gente applaude, però danno sempre la stessa base di applauso che è un applauso vero, sì, ma di circa 10, 20 secondi. Dal vivo è tutto un’altra cosa: mi ricordo l’applauso per John Williams, un bell’applauso. Quando arriva il mio turno ricevo un applauso enorme: ho vinto, ho vinto! Mi dico. Ero emozionatissimo, c’era Raquel Welch, la donna più bella del mondo e Dean Martin, che era ubriaco e mi ha consegnato l’Oscar.

Sai cosa succede quando sei lì? Quando ti danno l’Oscar lo stomaco viene su e non si riesce più a parlare.

Perché hai lasciato Monaco, l’Europa e hai deciso di stabilirti negli Stati Uniti?

Nel momento che ho avuto un successo in America, sono partito, avevo sempre sognato di andarci. Perché, non lo dico solo io, vale per tutto il mondo musicale, ad un certo momento si deve andare a lavorare a Los Angeles, soprattutto per l’ambito cinematografico. Los Angeles è la capitale dei film, quindi se tu hai un successo in America, hai una bella probabilità di avere un successo enorme, mondiale. Poi mi piace moltissimo, ci si lavora bene, ci sono i film, c’è la musica, c’è la tecnologia, ci sono parecchie case tecnologiche lì che inventano delle cose, per esempio il Dolby Atmos. È una città dove trovi tutto: se alle sette di sera ho bisogno di un batterista io so di trovarlo. A Monaco, diciamo di no…

Negli Stati Uniti arrivi e fondi il tuo studio, come trovi i tuoi collaboratori?

Alcuni sono venuti con me, come il tecnico del suono Jurgen Koppers con cui lavoravo a Monaco; è venuto a Los Angeles ed è stato lì circa dieci anni, come lui anche alcuni musicisti tedeschi. Ho scelto anche dei musicisti americani. Tra i musicisti più famosi in quel periodo c’erano i fratelli Porcaro e il chitarrista Steve Lukather (che poi ha suonato Beat It con Michael Jackson). Lavoravo con i ragazzi che poi sono diventati i TOTO.

Come facevi a gestire tutto? Perché era un periodo densissimo, avevi mille richieste, e dopo questi grandi successi immagino che tutti ti cercassero

Purtroppo ho fatto un errore, avrei dovuto prendere un manager, non l’avevo. Veniva tutto direttamente a me, facevo fatica a destreggiarmi da solo con tutto quel lavoro. A volte non ci pensi, ma magari la lavorazione di un pezzo, un album o un film durano mesi. Se avessi preso un manager mi avrebbe aiutato a selezionare, mi avrebbe guidato un po’ meglio. Ci sono stati alcuni album di cui non ero contento perché non c’era abbastanza tempo per farli come volevo.

Gli anni ’80: collaborazioni e grandi successi 

Quando presenti ai Blondie Call Me per American Gigolo, all’inizio non erano contenti di fare il pezzo, vero?

Con Call Me c’è stato un problema: il primo intervento con il synthesizer, l’ho fatto a Los Angeles, poi sono andato a New York a registrare con i musicisti, e c’era uno tra loro che non era proprio contento, ma sai, su cinque ragazzi non è che siano tutti contenti di lavorare con qualcun altro, però è andata bene. Poi tornando a Los Angeles, ho aggiunto delle voci, “Call Me! Call Me!”, e non gli piacque. Il problema è che loro avevano un certo stile e Call Me non vi rientrava, e per un po’ di tempo non vollero più suonare né sentire il pezzo. Eppure fu il più grande successo che hanno avuto.

Ultimamente un gruppo che mi piace moltissimo, gli U2, hanno preso lo spunto di Call Me e hanno ripreso il “Call Me” in un pezzo chiamato I’m Free. Sono stato a Las Vegas sei mesi fa, dove l’hanno cantato allo Sphere, quel teatro incredibile.

Com’è andata la collaborazione con David Bowie per Cat People?

La più facile di tutte. Sono andato una sera col regista Paul Schrader a Montreaux, David abitava a Château du Signal, vicino a Losanna. Abbiamo cenato, gli ho parlato un po’ del pezzo e gli dico: “Allora ci vediamo domani?”, e pensavo magari rispondesse “vengo verso le tre, le quattro”, invece mi dice “vengo qua al ristorante dell’albergo, andiamo a colazione verso le 9, 9 e mezza. Andiamo allo studio, cantiamo ed è tutto”. L’ha cantata in mezz’ora, tre volte. A un certo punto dice: “Ah Giorgio, finita, finita, mi piace!”, per Schrader era inconcepibile finire in tre takes, soprattutto perché veniva da cinema dove se ne fanno almeno 10. Kubrick faceva anche 90 takes con Nicole Kidman in Eyes Wide Shut!

Con What A Feeling per Flashdance vinci il tuo secondo Oscar. Lì potevi vincere anche per la migliore colonna sonora, giusto?

Nel film ci sono un sacco di canzoni come She’s A Maniac, Romeo, Lady Lady Lady, però c’era poco posto per lo score. Ho fatto circa 10 minuti quando di solito è dai venti ai 40 minuti. Tutti mi dicevano che avrei vinto l’Oscar per la canzone perché era un successo talmente grande che non poteva essere altrimenti.

Mentre lo stavano girando c’era un po’ il rumour che fosse un film soft porn, ero indeciso se farlo o no. Ero nello studio a casa mia, avevo il video e ho chiesto a un’amica di guardarlo mentre lavoravo su un’altra cosa, perché non ero un gran ché interessato. Ha visto il film ed è venuta piangendo, “Oh, che bel film!”, disse. Siccome le è piaciuto così tanto ho deciso di farlo, se no magari non l’avrei fatto, quindi meno male. Il Tema d’amore è uno dei pezzi che mi piacciono di più perché c’è un bella strofa, un bel ritornello, è abbastanza vivo. Un bel pezzo, sì.

Componi poi un pezzo dietro l’altro: c’è Flashdance, Scarface, Topgun. Una vera e propria progressione, come funziona? Tra l’altro in Scarface, componi tutta una serie di musiche diverse una dell’altra: Vamos a Bailar, Push It to the Limit, She’s on Fire, Rush Rush.

Lì dipende un po’ da quello che succede in scena. All’inizio, quando lui entra da Cuba, la musica è, non so se triste, ma un po’ drammatica, poi entra con un pezzo un po’ più ritmico. Nella discoteca, certo, devo fare un pezzo discografico, un pezzo disco con She’s on Fire. Quando la sorella si sposa, ho fatto un pezzo con Paul Engemann, con cui ho scritto anche una hit per la musica delle Olimpiadi di Los Angeles nel ’84. Poi ho composto un pezzo in spagnolo, Vamos a Bailar, e Rush Rush con Debbie Harry.

Il film all’inizio non andò bene. Anzi, quando fecero la première, che normalmente è sempre un tipo di evento allegro, fu invece terribile. Dissero al regista, Brian De Palma, di togliere almeno una cinquantina di “Fuck you”; ne tolse solo una decina. Il film poi è uscito in video ed è stato un successo enorme, enorme. È piaciuto specialmente alla comunità afroamericana, ai rapper. Ho incontrato dei ragazzi che conoscono il film a memoria, che l’hanno visto 10 volte, 20 volte, e di pezzi rap ispirati al film sono decine! Anche Kanye West ne ha fatto uno.

Come funzionava, ti facevano vedere il film senza colonna sonora o con un po’ di musica, per farti un’idea?

Dipende, con Scarface ho cominciato a comporre un po’ prima, mentre stavano ancora girando. Mi hanno fatto leggere la sceneggiatura. Poi soprattutto conoscendo Brian De Palma, che è bravissimo, mi sono fidato, Flashdance invece l’ho visto quando era quasi finito.

Sono sempre contento di cominciare quando vedo almeno il 70%, 80% del film finito. Ci sono dei registi che ti dicono esattamente “Qui c’è un pezzo di X che potrebbe funzionare come sound” aiutandomi un po’, o quelli che ti dicono “Fai tu. Non so cosa mi piace di più”, ma va bene anche quello.

Ma tra i vari registi con cui hai collaborato, Brian De Palma, Paul Schrader, Alan Parker, Adrian Lyne, qual è stato quello con cui ti sei trovato meglio?

Ma quasi tutti, Brian De Palma molto bravo, Adrian Lyne anche. Paul Schrader aveva un po’ un problema con Nastassja Kinski. Era innamorato di lei, ne era ossessionato. Lì c’è stato un problema col mix di Cat People, dove lui non riusciva a concentrarsi perché magari lei gli telefonava per dirgli che quel giorno non potevano vedersi, ci stava male e questo lo distraeva, però per il resto è andato sempre bene.

Sulla lavorazione a Metropolis 

Metropolis è un film che hai fortemente voluto tu. Perchè hai scelto il film di Fritz Lang e come hai fatto per ricostruirlo? Non esisteva più la versione integrale, perché era stata tagliata negli Stati Uniti.

Mi ha aiutato molto Enno Patalas, che era il direttore del Munich Film Museum. Gli ho chiesto dove potevo trovare delle copie. La casa che deteneva i diritti era la Murnau Stiftung a Monaco. Loro avevano una copia abbastanza buona, non completa però la migliore che c’era. Poi sono riuscito ad avere qualche minuto dal MoMA di New York. Patalas diceva che se eravamo fortunati forse c’era una copia in Cecoslovacchia o in Ungheria, in quel periodo lì mandavano le pizze e se i film andavano bene li tenevano, ma purtroppo non trovai niente. Poi un filmaker australiano mi mandò circa 15 secondi. 

Finii in un cinema che adesso non c’è più, di un vecchio signore, che proiettava tutti i film più vecchi e strani, aveva alcuni secondi di Metropolis. Mi ha dato questa pizza di nitrato, l’ho messa in macchina e l’ho portata alla società che mi faceva il transfer della pellicola. Mi hanno detto (alzando la voce in tono inquisitorio) “Tu sei andato in macchina col nitrato? Ma te lo immagini che se faceva più caldo poteva esplodere?” Ovviamente non c’ho più riprovato.

Devo dire che è stato il primo film al mondo – proiettato nel cinema dell’Academy a Los Angeles, non il più bello, ma tecnicamente il più buono – presentato in digitale 4 piste, in Surround. Normalmente le 4 piste sono sulla pellicola del film e dopo due, tre settimane il suono si degrada un po’. Io avevo le 4 piste sul Sony digitale, era perfetto. Allora il lavoro di portare queste macchine grandi così da almeno 200 kg nella sala di proiezione del cinema dell’Academy era un problema. Però bisognava anche sincronizzare l’audio. 

Patalas fu fortunato, anni dopo ha trovato quasi 30 minuti dell’originale di Fritz Lang in Europa dell’Est, mi pare. Ora c’è la versione lunga che è stata digitalizzata e la qualità è bellissima.

Ma da dove veniva questa tua attrazione per Metropolis?

All’inizio l’idea mi era venuta leggendo del film Napoléon di Abel Gance. Carmine Coppola, il padre di Francis, ha fatto la musica, e l’ha presentato con l’orchestra al Radio City Music Hall, fu un successo enorme. Carmine ha chiamato Abel Gance a Parigi dal vivo, lui avrà avuto 90 anni e si è goduto per 10 minuti gli applausi dell’audience del cinema mentre era a casa sua. Non credo che il film avesse la musica prima.

Invece Fritz Lang aveva fatto anche la musica però non l’hanno incisa. Io ho il libretto col dialogo, con le note del regista o di chi per lui, dove c’è scritto “qui devo cambiare questo, qui va tagliato”. Ho proprio l’originale dove c’è il commento su quasi ogni pagina. 

Attualità e conclusioni 

Così Moretti chiude la masterclass: Tu non hai mai smesso di interessarti a quello che succedeva, alle novità, a cosa succedeva nel mondo della musica. Continui ad ascoltare musica quotidianamente, cosa ti piace? cosa ti interessa?”

Io ascolto solo pop. Non ascolto musica classica. Quando vado a fare un po’ di ginnastica ascolto i top 100 di Billboard, che sono quelli ufficiali americani. Poi mi piace moltissimo la trap italiana. Per esempio mi piace moltissimo il pezzo Made in Italy di Rosa Chemical. Ma anche Sfera Ebbasta, Geolier, Madame. Ascolto la top 50 pezzi italiani almeno una volta alla settimana e li conosco tutti.

Poi ascolto i francesi, sono bravissimi nel rap. Gli inglesi più o meno come gli americani, poi sono interessanti su Spotify i 50 global, cioè i 50 pezzi che sono in primi nel mondo, e lì ci sono pochi italiani devo dire, ma parecchi spagnoli, qualche francese.

Gli interventi del pubblico

Un ragazzo dall’accento portoghese chiede se sia rimasto in lui qualcosa di Hans Jörg, come la madre lo chiamava da piccolo. Moroder risponde con un deciso “No”, scatenando le risate e gli applausi della sala. Il ragazzo aggiunge se la musica brasiliana ha avuto una qualche influenza sul suo percorso come compositore. Moroder nega, però ammette di aver amato la bossa nova “forse una delle musiche più belle che ci sono”.

Un appassionato fan, ora regista, rimasto segnato come molti di noi da La storia infinita chiede qualche aneddoto a riguardo, così risponde il maestro: “Ci sono due colonne sonore. La prima, quella di Klaus Doldinger, che era bravissimo (aveva fatto successo con il tema strumentale di Das Boot, sempre di Wolfgang Petersen) non ha convinto del tutto in America. Gli americani volevano una canzone, allora mi hanno chiesto di comporre dei pezzi nuovi, di cui uno con Limahl. In Germania il film è uscito senza il pezzo cantato da Limahl mentre nel resto del mondo sì. Ho avuto una discussione terribile con Doldinger, mi diceva “Come fai a rovinarmi il film con una canzone così?”, io gli risposi “Mi hanno chiesto di fare questa canzone e l’ho fatta”. Poi Neverending Story è diventata un grande successo.

Interviene un altro preparato spettatore che esprime la difficoltà di fare una singola domanda a qualcuno che ha composto più di 800 pezzi. Giorgio lo corregge “732. Uno potrebbe pensare che siano di meno o di più.” Il pubblico esulta ed applaude.

Il musicista si sofferma anche sui Sigue Sigue Sputnik, definendoli uno dei primi gruppi punk, venuti fuori con il pezzo Love Missile F1-11. Erano pazzi! “Sono venuti – io parlo di quaranta anni fa a Monaco – nel ristorante dove ci siamo conosciuti ed erano tutti vestiti punk. Uno con il mohawk grande così. Io ero lì in giacca e cravatta con la gente che mi guardava“.

Uno spettatore prosegue il discorso su Metropolis chiedendo a Moroder se abbia mai pensato, in vista del centenario nel 2026, di tornare sul film. Lui risponde con un altro secco “No” scatenando di nuovo risate e applausi.

Il signore continua sollevando la questione di un eventuale pubblicazione dell’intero score strumentale, di cui sono editi soltanto tre brani: “Quella era una questione della casa discografica“, risponde Moroder, “Volevano mettere solo le canzoni, qualche pezzo più commerciale perché il resto non gli interessava. Una gran parte dei suoni che accompagnano le scene non si possono inserire come score nell’album“.

Una ragazza chiede di raccontare la collaborazione con i Daft Punk, Moroder risponde: “I Daft Punk erano bravissimi. Li ho conosciuti più di 10 anni fa a Los Angeles. Stavano facendo la musica per Tron: Legacy. Hanno chiesto al mio agente se mi andava di lavorare con loro. Io gli ho detto che nessuno rifiuta un lavoro con i Daft Punk. Allora ho pranzato con loro due e mio figlio; mio figlio li ha visti allo show più bello, quello della piramide nel 2007. Abbiamo parlato un po’ e ho accettato la collaborazione. Dopo un po’ di tempo mi chiama Thomas (Bangalter), chiedendomi di andare a Parigi a registrare. Arrivato lì mi aspettavo di comporre un pezzo al pianoforte, ma loro mi dissero che avrei dovuto solo raccontare la storia della mia vita. Non capivo cosa volessero fare. Il tecnico mi ha messo tre microfoni, uno vecchio degli anni ’60, uno degli anni ’70 e un microfono abbastanza futuristico, gli chiesi se non bastasse un solo microfono. Mi risposero: ‘No, no, se noi parliamo di quando hai iniziato, usiamo il microfono vecchio. Se parli di oggi usiamo quello al centro e se parli del futuro quello di destra’. Gli dissi; ‘Scusate, ma chi mai sentirà la differenza tra i tre microfoni?” e loro “Forse la gente no, ma noi la sentiamo!’. Io non l’ho mai sentita…

Ringraziamenti e applausi

Giorgio si ferma un momento e dice, microfoni spenti, a Moretti “Che dici? Firmiamo qualche autografo?” e tutto contento viene assalito dalla folla per farsi firmare i dischi o per fare una foto. Rimane cinque minuti fino a quando non viene portato via quasi di forza, con il disappunto di quei pochi che non sono riusciti a farsi firmare la copia.

Non so se si ripeterà mai una masterclass di Moroder, ma mi ritengo fortunato ad aver incontrato un grande, un uomo umile, simpatico e disponibile, sempre riconoscente nei riguardi dei colleghi e fautore di un meraviglioso mondo di suoni che hanno fatto la storia della musica.

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