La figlia oscura è uno dei romanzi di Elena Ferrante, edito da “Edizioni e/o”, che bisogna leggere spogliandosi di ogni pregiudizio. Una storia che parla dell’essere madre, ma ancor prima dell’essere donna. Un concetto di maternità che viene restituito in modo atipico, immerso in una dimensione penetrante, asfissiante e a tratti scomoda. D’altronde chi si è già imbattuto nei romanzi di questa scrittrice è ben consapevole di interfacciarsi con una penna cruda e sincera, priva di ipocrisia, capace di arrivare dritta come un pugno allo stomaco, senza alcun tipo di riserva.
Quello che vuole ricordare Elena Ferrante è che l’essere madre è bello, ma non è abbastanza. Una donna ha bisogno di sentirsi tale in ogni suo aspetto, specialmente quello riguardante la libertà. Un figlio è un meraviglioso dono che però non legittima a privare di autonomia e quotidianità chi l’ha messo al mondo.
La trama
Leda è una donna di 48 anni, madre di Bianca e Marta, insegnante universitaria, in partenza per le vacanze estive sulla costa ionica. La prima vacanza spensierata, da quando le figlie sono andate a vivere con il padre in Canada. Uomo con il quale, nonostante il divorzio, ha mantenuto un rapporto civile e cordiale. Sarà l’incontro con una famiglia di Napoli a cambiare la visione di vita della protagonista e che le consentirà di rivelarsi totalmente senza inganni e timori.
Il lato oscuro della maternità ed il rapporto madre-figli
L’approccio con questo romanzo esige una comprensione pronta e acuta. Una narrazione intensa, incline alla rivelazione e mai al giudizio, che chiede di andare oltre a ciò che si legge. La Ferrante redige una testimonianza rara della condizione di maternità e del rapporto madre-figli, che vengono metabolizzati con affanno, mettendone a fuoco il lato oscuro e claustrofobico. Una maternità servita come imperativo categorico, un evento da dover “programmare”, un’imposizione necessaria per il compiacimento altrui. Vista come legame che strozza, un peso schiacciante di responsabilità e sensi di colpa.
Una condanna a non poter essere più padrone delle proprie emozioni, perché obbligate a doverle trasporre necessariamente alle proprie creature. Uno status che conserva poco di sé e tutto dei figli e che priva dei contorni fisici e psichici tipici dell’essere donna. “Un figlio, sì, è un gorgo di ansie”.
La bambola, il simbolo di una dedizione materna mancata
Un dissidio interiore continuo, quello che Leda sente quando si passa tra le mani la bambola che ha rubato alla figlia di Nina, uno dei personaggi principali del racconto. Un furto apparentemente insensato, ma che in realtà trova spazio nel suo inconscio e nel suo passato. Un gesto legato alla sua infanzia e a quella delle figlie che fatica ad accettare e a lasciarsi alle spalle.
La voglia ossessiva di voler vestire e svestire la bambola, la continua titubanza nel decidere se restituirla alla legittima proprietaria o tenersela nella borsa, sono segni infantili di una simbologia legata alla dedizione e alla cura che Leda non ha mai avuto nei confronti di Bianca e Marta. Ma la Ferrante non vuole l’autocommiserazione della sua protagonista, per non aver svolto il suo dovere materno, anzi. Per la scrittrice l’unica colpa che ogni madre dovrebbe provare sta esclusivamente nell’incapacità di attuare e dare anima alle proprie ambizioni ed ai propri desideri.
“A quell’epoca avevo continuamente mal di stomaco per la tensione, erano i sensi di colpa: pensavo che ogni malessere delle mie figlie fosse causato da un mio comprovato difetto d’amore”
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