La ferrovia sotterranea (The Underground Railroad) si colloca sul confine sempre più labile tra cinema e serialità televisiva, su cui le grandi piattaforme streaming insistono sempre di più. Cambia cioè il supporto di fruizione, ma non mutano i processi produttivi cinematografici né si impoverisce lo sguardo d’autore dietro la macchina da presa.
I dieci episodi realizzati per Amazon Studios da Barry Jenkins, infatti, rispecchiano fedelmente l’idea di cinema del grande regista contemporaneo. E oltre a essere sempre da lui adattati per lo schermo, dall’omonimo romanzo di Colson Whitehead (2016), sono anche prodotti dallo stesso team dei suoi film. Accanto ad Amazon, cioè, figura la Pastel Production e la Plan B Entertainment (di Brad Pitt) già alle spalle di Moonlight e Beale Street.
Questo per dire che forse è arrivato anche il momento di ampliare il senso comune del termine cinema, includendo anche ciò che, come La ferrovia sotterranea, sicuramente non è televisione.
Perché, comunque, dovremmo guardare una serie che (apparentemente) parla di schiavi della Georgia e sembra lontana anni luce dal nostro pubblico nazionale? Andiamo con ordine.
Barry Jenkins
La prima ragione, va da sé, è proprio il regista (e sceneggiatore e produttore) Barry Jenkins. Chiunque si definisca anche solo lontanamente amante del cinema non può perdere niente di ciò che questo uomo crea. Niente.
Non è neanche la prima volta in assoluto che Jenkins si dedica alla serialità. Abbiamo già parlato per esempio dell’episodio di Dear White People da lui diretto. Prima d’ora però non aveva mai portato avanti un intero progetto a suo nome. E in realtà il diverso mezzo non cambia il suo approccio. Jenkins si limita a scrivere un film in dieci capitoli, anziché in 90 minuti. È così che vediamo sempre il suo cinema delicato, poetico, onirico e contemporaneamente radicato nella realtà e nel presente. Un’arte che fa dell’estetica la sua politica. Ricerca cioè l’armonia, la Bellezza e l’appagamento dell’occhio. Contemporaneamente però affronta questioni più che urgenti dal punto di vista dei contenuti.
Con The Underground Railroad Jenkins aveva affermato di voler “onorare gli antenati” e anche per questo si avventura in un ambito ormai scivoloso e rischioso, quello della schiavitù. Da quando infatti Steve McQueen ha calcato la mano con 12 anni schiavo, vincendo persino l’Oscar, ci si è chiesti ripetutamente quale fosse l‘utilità di mostrare sempre il popolo afroamericano in pena, torturato dalle sevizie del passato anziché raccontare il suo presente. Qui però, paradossalmente, emerge la seconda ragione per cui è interessante guardare La ferrovia sotterranea: l’ucronia.
L’ucronia della Ferrovia sotterranea
Per “ferrovia sotterranea” generalmente si intende una rete segreta di persone, di abolizionisti che davano ospitalità e protezione agli schiavi in fuga. Nel romanzo di Whitehead si trasforma in una reale via di fuga che porta in salvo i fuggitivi ma li pone di fronte poi di fronte a nuovi, inaspettati e terribili ostacoli.
Quello che apparentemente potrebbe sembrare un racconto storico, nel primo episodio della serie, diventa bruscamente in qualcos’altro. E qui risiede la particolarità del progetto che, come anticipato, ha sempre un legame con il presente, per quanto possa sembrare astratto o immaginifico.
Georgia, come si intitola il prima capitolo, è un resoconto introduttivo il cui scopo è quasi esclusivamente la presentazione dei personaggi. Cora (Thuso Mbedu), la protagonista, è una ragazza abbandonata dalla madre, unica fuggitiva nella storia della piantagione. Prova ancora un forte rancore nei suoi confronti e, in opposizione, si mostra totalmente sottomessa alla legge dei padroni. Caesar (Aaron Pierre), suo futuro compagno di viaggio, sa leggere e scrivere, e viene dal Nord, dove avrebbe potuto diventare libero. Convince Cora a fuggire con lui quando nella piantagione la violenza diventa insopportabile.
In questi primi minuti nulla sembra essere al di là della nostra immediata comprensione. Anzi, in un certo senso rispecchia il nostro immaginario. Persino in contrasto con il solito stile di Jenkins, il primo episodio presenta una violenza esplicita e brutale, debitamente segnalata all’inizio. Il gioco con il pubblico inizia dal secondo episodio, Carolina del Sud, quando niente di ciò che vediamo, al contrario, trova riscontro nell’esperienza storica.
Ci troviamo di fronte, infatti, a una cittadina popolata quasi interamente da ex schiavi, fatta eccezione per i pochi bianchi che fungono da medici o insegnanti. Siamo sempre orientativamente nell’Ottocento. E sembra quasi partire da qui l’ucronia, la Storia alternativa, in cui, in questo mondo sospeso, è plausibile credere che i neri possano sfoggiare abiti eleganti, lavorare ed essere pagati mentre intorno prosegue la schiavitù.
L’elemento disturbante e i falsi alleati
Fosse solo questo, non avrebbe comunque senso creare una serie del genere. In realtà però è chiaro fin da subito che qualcosa non è stato detto nel passaggio tra il primo e il secondo episodio. Qualcosa di oscuro, un elemento disturbante che crea inquietudine e allerta nello spettatore. Ed è qui che tutto diventa interessante. Senza fare spoiler riguardanti la trama vera e propria, è sufficiente dire che ben presto cade la maschera dell’ipocrisia e subentra la sottile denuncia di Jenkins.
Nei volti degli insegnanti, dei datori di lavoro, dei medici, dei bianchi falsi alleati improvvisamente si nota tutta la morbosità, il disprezzo e il desiderio di appropriazione dei corpi e delle anime nere. L’aiuto offerto si rivela solo un diverso metodo di sfruttamento, esattamente come il principio della schiavitù negli anni ha solo cambiato la sua forma e non la sua sostanza negli USA.
Ricordandoci che questo in realtà è un viaggio e che non siamo nemmeno oltre la prima tappa, Jenkins allora ci fa trattenere il fiato ancora un po’. Plasma una realtà sicuramente meno violenta delle piantagioni ma altrettanto spaventosa. È così ci prepara a fuggire ancora, ad affrontare un percorso tra le tappe della Ferrovia Sotterranea, alla ricerca della salvezza. Un viaggio che si fa sempre più difficile, perché porta su di sé il fardello di ogni fermata precedente.
Chiaramente, comunque, non si deve dimenticare che si tratta di un racconto orientato al pubblico nero, come lo era Moonlight, ma trova la via per parlare a chiunque. E si fa monito, per provare a guardare la Storia, da un altro punto di vista, sì immaginario ma inaspettatamente familiare.
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